Il coraggio di chiamarsi partito

Calenda ha perso Mariastella Gelmini, Mara Carfagna e Giusy Versace, Luigi Marattin ha lasciato Matteo Renzi. Non è colpa della polarizzazione, ma della nave che era costruita male

Guarda i muscoli del capitano, cantava De Gregori, sapendo bene che i muscoli del capitano servono a poco se la nave ha un difetto fatale di progettazione (non per nulla parlava del Titanic). Ora che il terzo polo va a picco mentre i suoi capitani se ne stanno dritti sul cassero a fumare la pipa, è fin troppo umano che le ciurme cerchino salvezza sulle scialuppe a disposizione, o che si abbranchino a qualche lastra di ghiaccio sperando di non morire assiderati. Guai a loro però se dessero la colpa al vento della polarizzazione, al mare delle leggi elettorali o all’iceberg delle europee. La colpa principale è altrove: la nave era costruita male.

Intorno a Luigi Marattin si sta adesso allestendo un nuovo cantiere, e io non risparmierò agli arsenalotti i miei consigli da umarell. Il suo libro (La missione possibile, Rubbettino) dedica purtroppo solo quattro pagine, le ultime, a un tema che ne avrebbe richieste quaranta o quattrocento: la forma-partito. È lì che si capirà se avremo una nave robusta o l’ennesima barchetta col buco. Scrive Marattin che il nuovo partito non potrà seguire il modello novecentesco, ma che dovrà avere dei leader eletti a tutti i livelli (nazionale, regionale, provinciale) a scadenze stabilite e in base a mozioni in competizione, una direzione più larga, una segreteria con deleghe precise, una scuola di formazione… In breve, un partito novecentesco che non ha il coraggio di dirsi tale. Il qui presente umarell approva, perché la scuola di costruzione navale della Prima Repubblica ci ha lasciato le imbarcazioni più durature. Quindi smettiamola con i movimenti, le comunità, le piattaforme elettorali, i network e i club, e facciamo un partito vero. Magari ritrovando il coraggio di chiamarlo col suo nome: partito.

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