Finisce lo smart working? Per Amazon sì, tutti in ufficio

Dopo anni di lavoro in remoto finisce la pacchia per i dipendenti dell’azienda fondata dai Jeff Bezos. Clichè e vantaggi a cui ci siamo abituati dalla pandemia in poi

Un thriller d’attualità oggi si potrebbe intitolare “2024, fuga dallo smart working”, e sarebbe interessante risalire a chi sarà mai stato l’inventore italiano di questa formula, che non esiste in nessuna lingua del mondo, di sicuro non in inglese (gli anglofoni di passaggio si incuriosiscono e chiedono, tutti seri: ma perché “smart”?, essendo alle loro latitudini piuttosto “remote working” o “work from home”, ma qui si ricade nel solito vezzo italiano per cui la lingua non è strumento di comunicazione ma di decorazione, soprattutto quando è ufficiale e dunque si veste a festa, vagamente in stile poliziottesco, con “andare” che diventa immediatamente “recarsi”.

Ma tornando al lavoro smart, cioè quello non in ufficio, è notizia degli ultimi giorni che Amazon ha avvisato i suoi dipendenti che la pacchia smart è finita, basta col lavoro da casa, è ora di tornare in ufficio. Dal primo gennaio 2025, gli 1,5 milioni di lavoratori del gruppo dovranno passare almeno cinque giorni in azienda (quindi vuol dire che sabato e domenica possono tornare a casa. Com’è umano Amazon!). A parte gli impacchettatori, attività difficile da immaginare smart, ci si chiede se il ritorno alla Megaditta digitale favorirà i conti. Sulla produttività del lavoro imboscato non ci sono infatti statistiche ma semplici osservazioni empiriche: quando si stava a San Francisco all’apice del boom siliconvallico l’ammirazione era altissima per tutti quei nerd digitali che lavoravano dal bar coi loro computerini tra un “chia pudding” e un “latte” costosissimi di catene fondate da giovani startuppari come loro. Poi si scoprì che appunto la produttività era pessima e a un certo punto i maggiorenti della Silicon Valley richiamarono tutti in ufficio. Poi venne il Covid e di nuovo tutti furono invitati a stare a casa.

Dopo la pandemia diciamo che far tornare la gente in ufficio è molto dura. Secondo uno studio dell’Istituto nazionale per l’analisi delle politiche pubbliche (Inapp), in Italia prima della pandemia le persone che lavoravano da remoto almeno un giorno alla settimana erano l’11 per cento della forza lavoro, poco meno di due milioni e mezzo. Nel 2021 erano il 32,5 per cento, oltre sette milioni. Del resto, a meno di mogli o mariti molesti, figliolanze non scolari, perché mai bisognerebbe andare in ufficio? Bisogna vestirsi, uscire, guidare nel traffico, prendere mezzi pubblici inefficienti, partecipare a gossip da ufficio defatiganti, utilizzando macchinette del caffè con bicchierini di plastica, e poi nutrirsi nell’agghiacciante rito del pranzo coi colleghi al bar o con l’altrettanto agghiacciante schiscetta da casa. Certo ci sono le ricadute sul pil: è notizia di ieri il fallimento della Tupperware, azienda specializzata nelle confezioni per schiscetta, ci sarà una correlazione? Bisognerà sostenere il business della cotoletta rinsecchita e delle “insalatone” micidiali con mais, insomma dei “pranzi di lavoro” dei bar romani e milanesi? E gli effetti sul traffico? Quanta CO2 emetteranno gli 1,5 milioni di lavoratori Amazon?



Però certo è un mondo di contraddizioni: da una parte ci richiamano in ufficio, dall’altra c’è tutta la narrazione romantica sui “nomadi digitali” (non i borseggiatori dotati di smartphone ma quelli intervistati dai giornali che “avevo un lavoro da ingegnere alla Ibm e guadagnavo un fantastiliardo ma ora invece faccio il liutaio nelle valli del cuneese e ho capito il vero senso della vita”). Non sempre il nomadismo riesce; ci ricordiamo tutti i casi di rigetto, come la famigliola finlandese che si era installata in Sicilia e poi era rimasta delusissima perché le insegnanti non parlavano un inglese madrelingua come erano abituati nelle loro metropoli socialdemocratiche nordiche. E non facevano lezioni all’aria aperta come loro immaginavano si facesse in Sicilia, con gli scolaretti a suonare il flauto sullo scoglio.



Per un po’ si è sognato tutti di andare ad abitare nelle “zoom town” cioè posti dimenticati da Dio dove comprare casa costa pochissimo, tanto si lavora online (però poi con chi parlerai, finita la riunione? Riunione che non è detto si possa fare, data la copertura della Rete, senza ricorrere ai satelliti di Elon Musk. E del resto se certi posti sono spopolati, un motivo ci sarà). Categoria a parte sono i nomadi ricconi, quelli che vagano di stato in stato e che vengono in Italia grazie alla flat tax che Renzi aveva inventato, centomila euro l’anno qualunque sia il patrimonio. Ora Giorgia Meloni l’ha raddoppiata, la tassa, a duecentomila, ma i nomadi ricconi non sono preoccupati. E il suo amico Musk? A Twitter, una delle aziende più generose sul lavoro remoto, quando l’aveva rilevata come prima cosa aveva eliminato lo smart working richiamando in servizio i 3.700 dipendenti (anzi, come seconda cosa. Prima aveva licenziato gli altri 3.700). Questo pezzo, comunque, è stato scritto in smart working.

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  • Michele Masneri
  • Michele Masneri (1974) è nato a Brescia e vive prevalentemente a Roma. Scrive di cultura, design e altro sul Foglio. I suoi ultimi libri sono “Steve Jobs non abita più qui”, una raccolta di reportage dalla Silicon Valley e dalla California nell’èra Trump (Adelphi, 2020) e il saggio-biografia “Stile Alberto”, attorno alla figura di Alberto Arbasino, per Quodlibet (2021).

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