Il gran manifesto d’ottimismo di Meloni all’assemblea di Confindustria

Meloni offre il suo miglior discorso da premier. C’entra il pragmatismo, ma non solo. Le parole di Orsini, con note positive e altre no, i timori non compresi delle imprese e qualche notizia. Passeggiata romana

Abbiamo fatto una passeggiata ieri a Roma all’Auditorium Parco della Musica, dove il presidente di Confindustria Emanuele Orsini ha tenuto la sua prima relazione all’assemblea generale, e abbiamo assistito a tre scene interessanti, che vale la pena riportare.

La prima scena importante è in realtà l’ultima e riguarda il discorso tenuto dalla presidente del Consiglio, Giorgia Meloni, di fronte a una platea che in passato ha osservato spesso con sguardo sospettoso l’agenda sovranista della leader di Fratelli d’Italia. Meloni sapeva di trovarsi di fronte a interlocutori preparati, difficili ed esigenti e a loro anziché un comizio ha offerto un discorso ambizioso, pragmatico, europeista, che è probabilmente, agli occhi di chi li ha letti tutti finora dall’inizio della legislatura, ovvero i nostri occhi, il migliore mai pronunciato da quando Meloni si trova alla guida del paese. Poco spazio alla retorica, poco spazio alla demagogia, molto spazio ai numeri, ai fatti, alle promesse sulla manovra finalizzate non “alla creazione di consenso” ma alla stabilità del paese, delle finanze, del debito – dobbiamo “dire basta a questo costume di gettare un po’ di soldi dalla finestra per ottenere consenso facile della politica italiana, che è il vantaggio di chi dispone di una legislatura e non di un anno per disegnare la sua visione e per costruirla, per immaginare una strategia e per perseguire quella strategia” – concentrandosi sulla condizione di un paese, ovvero l’Italia, che crea lavoro più del previsto (la vera libertà delle donne è, dice la premier, non vedere chiudersi una strada se se ne intraprende un’altra, poter mettere al mondo dei figli e poter ambire ad avere un posto di lavoro, “ed è questa la grande sfida dell’occupazione femminile in Italia e delle donne”), che attrae investitori più del previsto, che esporta più del previsto, che fa crescere la Borsa più del previsto, che attira risparmiatori sui propri titoli di stato più del previsto, che cresce più del previsto, soprattutto grazie al Pnrr, anche se questo Meloni non lo ricorda, e fa tutto ciò, dice Meloni, non perché il governo ha fatto qualcosa di straordinario ma perché il governo ha scelto di dare fiducia alle imprese e le imprese hanno risposto aiutando l’Italia a crescere.

Lo stato, ha detto Meloni, non deve disturbare chi vuole fare, deve essere un alleato delle imprese e non un avversario, nella consapevolezza che “sono le imprese, non è lo stato, a creare ricchezza”. Nel suo discorso, Meloni si richiama per due volte al rapporto Draghi sulla competitività, nel giorno in cui tra l’altro la premier ha aperto le porte di Palazzo Chigi al predecessore, e lo fa in due occasioni.



Una prima volta in modo indiretto, quando sostiene che l’obiettivo di questo governo, “il prossimo, è aumentare la produttività del lavoro”, tema su cui ha battuto tanto Draghi quanto il nuovo presidente di Confindustria, perché “aumentare la produttività significa non solo aumentare la competitività del nostro sistema produttivo, ma dare la spinta ulteriore al pil”, oltre che ai salari. E una seconda volta in modo diretto, quando ha detto esplicitamente che sulla competitività europea occorre ascoltare Draghi, specie quando ricorda che “gli ambiziosi obiettivi ambientali dell’Europa devono essere accompagnati da investimenti e risorse adeguati, da un piano coerente per raggiungerli, altrimenti è inevitabile che la transizione energetica e ambientale vadano a scapito della competitività e della crescita”.

Una Meloni sorprendente, applaudita, apprezzata, a tratti molto europeista, specie nel momento in cui ha spiegato, parlando del ruolo assegnato a Raffaele Fitto, quante cose importanti può fare l’Europa per l’Italia, e che nello spazio di quarantotto minuti di intervento dedica solo un paio di minuti alle critiche all’Europa, praticamente nulla, scegliendo di raccogliere fino a un certo punto i numerosi assist offerti dal presidente di Confindustria sul tema del Green deal.

La seconda scena importante è quella che si è vista sul palco poco prima del discorso di Meloni, che ha rubato la scena al nuovo presidente, ed è una scena rappresentata dai contenuti offerti dal nuovo capo di Confindustria alla sua platea. Orsini offre all’assemblea un discorso con buoni spunti sulla burocrazia, sull’efficienza da ritrovare nel paese, su un grande Piano casa da costruire con il governo, sulla centralità del ruolo sociale delle imprese e sulle politiche ambientali che vanno riviste in Europa, perché “la decarbonizzazione inseguita anche al prezzo della deindustrializzazione è una débâcle”, i maggiori applausi, il presidente, li prende quando dice: “Non facciamoci trascinare da politiche ambientali autolesionistiche”.

Il presidente è stato coraggioso anche sui temi energetici, ricordando che “tutti noi abbiamo imparato che l’indipendenza energetica è questione di sicurezza nazionale”, e che per questo oggi andrebbe appoggiato “il nucleare di ultima generazione, invece di continuare a rifornirci a prezzi crescenti dalle vecchie centrali nucleari francesi”. Ma nel discorso del presidente di Confindustria ci sono anche alcune lacune che meritano di essere colmate presto. Gli accenni sulla produttività ci sono (“si tratta di una parola che suona quasi divisiva, invece deve essere intesa come sinonimo di ricchezza del paese: poiché un suo aumento porta a una crescita del pil, ovvero a un miglioramento del tenore di vita, con un vantaggio per tutti”) ma sono molto generici, evanescenti. Gli accenni sui salari ci sono, così come c’è l’invito ai sindacati a lavorare insieme, ma senza legare la parola produttività alla parola salari ogni discorso su questi temi rischia di essere debole, poco concreto, e se si sceglie di ragionare sulle retribuzioni basse concentrandosi più su quello che deve fare il governo (tagliare il cuneo fiscale) che su quello che possono fare le imprese (aumentare i salari, appunto) si sceglie di restare un passo indietro rispetto a chi invita a costruire un futuro confindustriale in discontinuità con il passato.

Stesso discorso sul tema della concorrenza, che compare nelle 24 pagine del discorso del presidente la bellezza di due volte in due righe. Stesso discorso sul tema dell’intelligenza artificiale, su cui il presidente ha il coraggio di dire una verità assoluta, pensiamo più a come investire su questo fronte che a come regolarlo, ma su cui sarebbe stato lecito aspettarsi un obiettivo, un sogno, un invito alle imprese, al governo, magari ricordando, a costo di far svenire Coldiretti e il ministro Lollobrigida, che scommettere sulla robotica significa incidentalmente scommettere su un formidabile made in Italy di cui i cultori del made in Italy dimenticano spesso di parlare. Orsini ricorda poi che gli ottimi risultati raggiunti dalle imprese italiane negli ultimi mesi sono arrivati nonostante la presenza dei conflitti bellici, ai confini con l’Europa, e l’occasione sarebbe stata propizia, il presidente ci scuserà ma è una nostra ossessione, per ricordare quanto le imprese italiane sono riuscite, facendo molti sforzi, a dimostrare che difendere una democrazia aggredita non è incompatibile con la difesa del nostro benessere.

La terza scena interessante, sorprendente, che cozza in parte con l’ottimismo meloniano riguarda un sentimento diffuso nella platea di Confindustria, colto in questo caso meglio dal presidente Orsini che dalla presidente Meloni. Orsini ha ricordato che “purtroppo, da diciotto mesi la produzione industriale italiana ha un segno negativo”, che “gli ordini di molte nostre filiere sono in calo, sia in Italia che all’estero”, che “la frenata europea, e soprattutto quella tedesca, continuano a spingerci verso il basso”, che “il mercato interno continua a mostrare le sue debolezze e molte delle nostre imprese stanno facendo fatica” e quella fatica è presente nelle storie che raccontano molti rappresentanti di categoria. I consumi nel mondo agricolo si stanno fermando, dice il presidente Giansanti (Confagricoltura). Stessa storia, dice l’ex presidente Carlo Bonomi, per il settore tessile, per il settore del pellame, per il settore delle calzature, del siderurgico. Le esportazioni, dice qualcuno, continuano a essere buone, ma riguardano sempre di più il mercato interno e un po’ meno il mercato estero. La ministra Daniela Santanchè, intercettata in fila al banchetto degli accrediti, dice che sul turismo i problemi non ci sono, che le stime sono buone, che a fine mese verranno diffusi i dati che segneranno un circa tre per cento in più di turisti nel 2024 rispetto al 2023, d’estate, con un incremento superiore dei turisti stranieri.

Maurizio Leo, viceministro all’Economia, intercettato anche lui al banchetto degli accrediti, dice che il paese crescerà più di quanto ci si aspetti, che essere ottimisti non è un mantra ma è una semplice constatazione della realtà, ma l’impressione è che gli imprenditori che hanno applaudito la premier, apprezzato Orsini, festeggiato per il riconoscimento dato in Europa all’Italia attraverso Fitto siano meno ottimisti del presidente del Consiglio e siano lì a dire, di fronte alla bonaccia dei mercati, di fronte alla crescita migliore del previsto, di fronte alla stabilità superiore alle attese che è arrivato il momento di smetterla con le fesserie, al governo, con le perdite di tempo sul nulla, e che è arrivato il momento di aiutare le imprese a crescere, a proliferare, a esportare dando a loro maggiori certezze, maggiori strumenti per innovare, maggiori occasioni per poter attrarre capitali dall’estero e crescere, creare ricchezza e aiutare l’Italia a essere più ottimista. L’ottimismo è sacro, ma se il governo vuole davvero aiutare l’Italia a creare maggiore benessere deve riuscire a mostrare pragmatismo anche quando sono finiti i 48 minuti da applausi di fronte all’assemblea di Confindustria.

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  • Claudio Cerasa
    Direttore
  • Nasce a Palermo nel 1982, vive a Roma da parecchio tempo, lavora al Foglio dal 2005 e da gennaio 2015 è direttore. Ha scritto qualche libro (“Le catene della destra” e “Le catene della sinistra”, con Rizzoli, “Io non posso tacere”, con Einaudi, “Tra l’asino e il cane. Conversazione sull’Italia”, con Rizzoli, “La Presa di Roma”, con Rizzoli, e “Ho visto l’uomo nero”, con Castelvecchi), è su Twitter. E’ interista, ma soprattutto palermitano. Va pazzo per i Green Day, gli Strokes, i Killers, i tortini al cioccolato e le ostriche ghiacciate. Due figli.

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