Tornare al vecchio modello della leva universale sembra impossibile, ma in un momento di insicurezza come questo forse la soluzione migliore per la Ue è arruolare uomini e donne
Roma, estate 1966. Un ragazzo alto e dai capelli lunghi si avvicina al portone di una caserma romana. Ha tutta l’aria di uno di quegli studenti che hanno poca voglia di sprecare mesi della propria vita servendo la patria in armi. Di quelli che a furia di rinvii per motivi di studio, magari, prima o poi la naja la evitano. “Che deve fare uno se vuole rinunciare al rinvio e partire subito militare?”, chiede a un annoiato soldato di guardia. Momento di perplessità. “Che deve fa’?”, risponde il militare, “se deve fa’ guardà urgentemente al manicomio”.
La scena non è vera (in effetti è tratta da “La meglio gioventù” di Marco Tullio Giordana). E nemmeno troppo verosimile. Per centocinquant’anni, tanto è durata la storia della coscrizione obbligatoria, gli studenti sono stati i primi a cercare di evitare la “tassa del sangue”, come la chiamano i francesi, che se la sono inventata ai tempi della Rivoluzione. Poi, nell’estate 2004, quella che per tanti era solo una lunga perdita di tempo a base di cibo pessimo e caserme fatiscenti lontane mille chilometri da casa è finita. Era l’epoca del governo Berlusconi II.
Alla fine di agosto, un Parlamento semideserto approvò definitivamente la legge 226: “Sospensione anticipata del servizio obbligatorio di leva”. Gli italiani non avrebbero più avuto l’onere e l’onore di partecipare alla difesa del paese. Ci avrebbero pensato dei professionisti, più o meno mal pagati. Il ministro della Difesa Martino lo definì un “provvedimento epocale”, e per certi versi aveva ragione. In quegli anni, archiviata la grande paura della guerra fredda, erano rimasti in pochi a credere che avesse ancora un senso addestrare centinaia di migliaia di giovani per difendere i confini. Persino in Francia, si disse “rompete le righe”. I ragazzi furono mandati a casa, tenendo in caserma solo chi l’uniforme la vestiva per mestiere.
“L’età posteroica”, la chiamavano gli analisti statunitensi, come quello spirito bizzarro di Edward Luttwack, con un certo sarcasmo. Era un modo come un altro per dire che gli europei avevano di meglio a cui pensare. Soprattutto, godersi gli agi della lunga pace garantita dalle armi (e dagli investimenti militari) dello Zio Sam, convinti che, sbiadita la minaccia russa, nessun carro armato e nessun cannone avrebbero mai più turbato i sogni di milioni di abitanti del Vecchio Mondo. I figli della Rivoluzione francese, che la libertà l’avevano conquistata a furia di battaglioni e sangue, erano diventati una massa di placidi consumatori, che si accontentavano di frigoriferi e automobili a basso costo.
Poi l’età posteroica è finita. Il 24 febbraio 2022, quando i parà russi sono sbarcati vicino a Kyiv. E gli europei si sono accorti di una realtà bisbigliata da tempo tra agli addetti ai lavori, ma mai detta ad alta voce dai governanti, perché sono questioni da far perdere milioni di voti. L’Europa è indifesa. Francesi, tedeschi, italiani, e tutti i membri della Nato possono mettere in campo contingenti di ottimi professionisti, anche solidamente equipaggiati. Ma sono pochi. Pensati per andare a sostenere piccoli conflitti asimmetrici in qualche angolo esotico del mondo, non per reggere una logorante guerra su larga scala fatta di artiglieria pesante, corazzati e migliaia di fanti. La prima risposta è stata mettere mano al portafogli. Secondo l’International Institut for Strategic Studies, la Polonia ha aumentato i propri stanziamenti del 75 per cento e la già pacifica e un po’ scalcinata Germania di Olaf Scholz, il cancelliere socialdemocratico della Zeitenwende (“la svolta epocale”), ha praticamente raddoppiato il proprio bilancio (nel 2024, spenderà 76 miliardi di dollari). Resta il problema degli uomini.
I soldati per guidare i carri e difendere le trincee come in Ucraina non esistono da tempo. Le forze armate dei paesi europei sono talmente striminzite da anni di tagli e di riorganizzazioni che a malapena riescono a reggere il ritmo delle missioni all’estero. Nel marzo scorso, il capo di stato maggiore della Difesa, l’ammiraglio Dragone, l’ha detto a chiare lettere in commissione Difesa. L’Italia ha 160 mila uomini in tutto per difendersi, ne servirebbero almeno 10 mila in più. È una preoccupazione condivisa tra i suoi colleghi in uniforme di tutto il continente. Scandinavi e Paesi baltici, i più preoccupati delle mire russe, sono già sul piede di guerra, per usare le parole di un rapporto presentato a luglio dal Carnegie Endowment for International Peace. La Svezia, non esattamente il paese più bellicoso della terra, ha ripristinato la leva, Lettonia e Lituania l’hanno seguita, la Danimarca l’ha estesa alle donne (che hanno salutato la misura come una vera conquista di parità). La Finlandia, che i russi li ha sulla porta di casa, ha organizzato una riserva di 285 mila cittadini addestrati (su meno di sei milioni di abitanti).
Boris Pistorius, il potente ministro della Difesa tedesco, pensa che l’abbandono della coscrizione obbligatoria nel 2011 sia stata una scelta disastrosa e ha parlato di un piano per ripristinarla, almeno parzialmente. La Germania non può difendersi con i 180 mila che le sono rimasti. In Francia, Emmanuel Macron parla da mesi di potenziare la riserva e di dare nuova linfa al legame morale tra Forze armate e cittadinanza: un modo elegante per dire che la gloriosa Armée non basta più. Non sono parole molto diverse da quelle usate in Italia dal ministro della Difesa Guido Crosetto.
Tornare al vecchio modello della leva universale nel breve periodo sembra più che impossibile nei grandi paesi dell’Unione europea. Mancano le strutture, gli addestratori, costerebbe uno sproposito. Ma di fronte alle sfide della nuova era dell’insicurezza, il ritorno dei cittadini-soldato sembra inevitabile. Forse è arrivato il momento di parlarne.