L’indignazione a senso unico del red carpet di Venezia

I messaggi che non arriveranno dal Festival contro gli orrori di Hamas tra magliette e ventagli pro Palestina

Da sempre è il dilemma di ogni artista al Festival di Venezia. Cosa indosso sul red carpet per tenere insieme eleganza e indignazione? Uno scialle rosso-nero-verde col motivo della bandiera afghana per le donne che lì non possono più parlare-salutare-cantare-fischiettare? Mhmm… bello, ma un po’ troppo di nicchia (e anche difficile da abbinare, ci vuole l’armocromista). La figurina della “blue girl”, simbolo delle donne in Iran, da appiccicare magari sul bavero della giacca? Però è acqua passata. Ci siamo già tagliate la ciocca di capelli su Instagram. Meglio non rischiare. Meglio restare sul classico. Meglio buttarsi sul genocidio, from the river to Laguna.

Ecco l’elegantissimo e discreto “volantino a ventaglio” di Laura Morante, “Stop the Gaza Genocide”, in caftano blu (e col dubbio à la Giambruno: sarà più “blu-estoril”, “blu-china” o “blu-Gaza”?). Ecco una più prevedibile maglietta “Free Palestine”, sotto la giacca di Lino Musella, in total-black.

Il mondo del cinema italiano è insomma in gran subbuglio per questo Festival che “resta in silenzio” su Gaza. Peggio. Infila due film israeliani (ho detto I-SRA-E-LIA-NI) in programma. Un affronto. Una dichiarazione di complicità. Arriva l’appello firmato da “oltre settecento tra artisti, tecnici, professionisti del cinema”, altrettanto sconosciuti al pubblico, ma con la guest star Brian Eno, sempre molto attivo nei boicottaggi. Dopo il solito attacco ubriacante, “Noi sottoscritt*, artist*, filmmakers e lavorat_ culturali” e passaggi che starebbero bene nello statuto di Hamas (“apartheid di Israele”, “sistema di oppressione coloniale”) arriva la sentenza: Venezia, inteso come Festival, colpevole di “artwashing”. Termine che indica, nella neolingua della Social Justice League, la ripulitura della coscienza naturalmente sporca di aziende e multinazionali che finanziano musei e istituzioni culturali (ogni ingiustizia, ogni sopruso ha ormai una nuova parola iperbolica: ma se un complimento è una “microaggressione” allora anche “genocidio” non va più bene, ci vuole qualcosa più “bigger than life”). A Venezia c’è “artwashing del genocidio” perché ci sono due film di troppo: “Of Dogs and Men” di Dani Rosenberg e “Why War” di Amos Gitai Il primo è girato nel Kibbutz Nir Oz, all’indomani del 7 ottobre e deve ancora passare al Festival. In mezzo al caos c’è una bambina che cerca il suo cane. Ma non va bene. E’ israeliano. Anche se racconta fatti legati ai massacri di Hamas è il punto di vista dei carnefici. Hamas applaude. Il secondo è un film-saggio sulla corrispondenza tra Einstein e Freud che si interrogavano sulle ragioni psichiche della guerra e delle nostre reazioni. Il regista, Amos Gitai, si è più volte pronunciato contro Netanyahu. Non basta. C’è una casa di produzione israeliana alle spalle. I nostri artisti, inclusivi con tutti ma non con gli israeliani, sono qui in ottima compagnia: la corrispondenza tra Einstein e Freud venne pubblicata a Parigi nel 1933 e subito proibita nella Germania nazista (chissà se lo sanno).

Non ricordiamo attori e registi italiani chiedere a gran voce il rilascio degli ostaggi subito dopo il 7 ottobre o anche molto dopo. Forse si era in quell’imbuto tra un Festival e l’altro, tra Venezia e Roma, mancavano i riflettori giusti, forse non si voleva fare troppa pressione su Hamas che poi si innervosisce. Il caso vuole che arrivino in questi giorni le notizie del ritrovamento di sei ostaggi uccisi, sei ragazzi del rave nel deserto, vivi fino a venerdì, e donne forse rimaste incinte dopo gli stupri di gruppo di Hamas. Siamo certi che vedremo da qui alla fine della Mostra almeno una maglietta, una pochette, un adesivino “Bring Them Home Now” sulla cover dell’I-Phone. Qualcosa insomma che metta un po’ di pressione artistica e cinematografica anche agli eroi di Hamas.

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