Il cinema come spettacolo: Tim Burton apre la Mostra di Venezia

Non è solo un film horror messo in apertura della Mostra d’Arte cinematografica. Con l’attenuante della comicità e della satira verso la famiglia americana, firmato dal regista di “Edward mani di forbice” (e di molti successivi teneri mostricini, o irrequieti non morti). “Beetlejuice Beetlejuice” – nome del demone che mai, per nessun motivo, va ripetuto tre volte, a rischio di richiamarlo dagli inferi dove abita – è il seguito del film che Tim Burton girò nel 1988, allietando l’estate degli spettatori americani.


È una dichiarazione d’intenti da parte del direttore Alberto Barbera – che per altri due anni potrà continuare a dare brio alla Mostra. Il cinema non è più solo Arte. Se mai lo è stato. Nasce come spettacolo popolare, a fianco degli acrobati e della donna barbuta; sono state poi le avanguardie storiche ad appropriarsene, senza apprezzabili miglioramenti. In apertura della Mostra 2024, fuori concorso, indica il futuro. E si fa beffe delle proteste di un ex direttore che nel 1986 non volle in Mostra “Velluto blu” di David Lynch. Era brutto? Macché: per il nudo di Isabella Rossellini, figlia di Ingrid Bergman & Roberto.



Tim Burton comincia “Beetlejuice Beetlejuice” – storpiatura del vero nome Betelgeuse – con una scena che irriterà i fanatici dell’Arte (ce ne sono tanti qui, magari dai Grandi Maestri del cinema europeo hanno rivolto le loro passioni verso il Giappone, ma pure loro prendono tutto terribilmente sul serio). Da poco fidanzata con Tim Burton, Monica Bellucci esce a pezzi da una scatola e si ricuce con le graffette. Il viso che era tagliato in due, una gamba e poi l’altra, un dito mozzato riacchiappato all’ultimo.



Si rimette in piedi, a metà tra la Sposa Cadavere e Sally la bambola di pezza che con ago e filo si ricuce una gamba lacerata, esce l’imbottitura. Geena Davis nel primo “Beetlejuice” si trovava faccia a faccia con un essere dagli occhi gradi e dalla testa rimpicciolita. Ora sono tanti, seduti alle loro scrivanie. A casa Maitland abitano gli eredi degli antichi proprietari defunti, che per liberarla dagli umani avevano chiamato il Bio-esorcista con i capelli verdi e l’abito zebrato. Lettura consigliata: “Il manuale del novello dipartito”. Quando prendono il treno per “The Great Beyond” cantano e ballano.

Non dura, purtroppo. Arriva il primo film italiano, diretto da Valerio Mastandrea (alla sua seconda prova dopo “Ride”) e piazzato in apertura della sezione Orizzonti. Regista, attore (e co-sceneggiatore con Enrico Audenino) per un film sicuramente personale. Ma nel senso che gli spettatori fanno una gran fatica a entrarci, dopo la bella scena con Valerio Mastandrea che prende ascensori, sale su montacarichi, si fa dare passaggi sulle barelle. Siamo in un ospedale, per malati in coma. Lo si capisce dopo un bel po’: mentre lui passeggia, incontra gli altri comatosi Laura Morante, Lino Musella, Giorgio Montanini, e con loro chiacchiera degli altri degenti.

“Gasp!” o magari “Gosh!” come stava scritto nei fumetti. I malati in coma se ne vanno in giro per la città, fanno sport (Valerio Mastandrea è scarso nel salto in alto, dà il meglio con la sua goffaggine). Hanno una vita e perfino si innamorano. Di una misteriosa paziente, maglione sformato e gonnellona femminista. Stuzzica Mastandrea, che prima se ne vuole stare solo e poi cede. Non abbiamo visto cinema, nei passatempi dei pazienti in coma. Sappia però Mastandrea che i morti stretti in un abbraccio con i piedi staccati da terra erano già del finale di “Enea”, diretto da Pietro Castellitto. Il film farà discutere, si usa dire. Ma sarebbe stato meglio discutere, e magari litigare, in fase di sceneggiatura.

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