Chiacchiere da bar. Così la storia culturale dell’Europa si è fatta nei caffè

A Parigi, a Vienna, a Venezia erano occasione di svago, epicentro di discussioni politiche e letterarie. Una civiltà della parola e un’arte di incontrarsi ormai in disuso

Quando sogno il paradiso mi vedo sempre al Ritz di Parigi”. Ernest Hemingway chiama, bar del Ritz risponde: 25 posti a sedere, cocktail ineluttabilmente iconici, arredamento invariato (o per lo meno così gigioneggiano nel sito), copertine di Life che lo ritraggono sorridente, incravattato, immusonito, mani in tasca, quindi una macchina da scrivere in custodia come una perla in conchiglia e uno xiphias gladius crestatissimo alla parete, lì a sovrintendere, con ittica fissità, un timone e un po’ di trovarobato legato allo scrittore.

Non si sa se Hemingway abbia frequentato i bar di Parigi più di quanto i bar di Parigi frequentino Hemingway oggi, citandolo nell’arredo, certificandone la presenza negli anni in cui “eravamo molto poveri e molto felici” e proponendo al turista esperienzial-culturalista le bevande sorseggiate dallo scrittore. A Garibaldi i posti letto, a Hemingway i tavolini dei caffè – di quelli parigini pare non gliene sia sfuggito uno. Festa mobile, alla seconda pagina, già racconta: “Arrivavo in un buon caffè di mia conoscenza in Place St-Michel. Era un caffè caldo e pulito e accogliente. Appendevo il mio impermeabile all’attaccapanni, posavo il cappello di feltro sopra la rastrelliera e ordinavo un café au lait. Il cameriere lo portava e io toglievo dalla tasca della giacca un taccuino e mi mettevo a scrivere”.


Hemingway ordinava un café au lait, poi toglieva dalla tasca della giacca un taccuino e si metteva a scrivere


Lo scrittore Enrique Vila-Matas, in Parigi non finisce mai, mette in bocca al protagonista del suo romanzo – un’inattendibile versione di sé stesso che si perde nella fantasmagoria di una Parigi anni Settanta che rievoca di continuo sé stessa e i propri fantasmi – questa leggenda: il 25 agosto 1944 Ernest Hemingway, armato di mitra e scortato da un gruppo della Resistenza francese, anticipò di qualche ora, dopo quattro anni di occupazione tedesca, l’arrivo degli Alleati. E liberò in autonomia il bar del Ritz, il famoso Petit bar di rue Cambon. “Per essere più esatti”, scrive Vila-Matas, fingitore tanto efferato da farti venire qualsiasi dubbio possibile (tranne sul fatto che ti stai divertendo come un matto a farti imbrogliare), “lo scrittore liberò le cantine dell’hotel. Poi occupò una suite, e in una nebulosa costante di champagne e cognac, si apprestò a ricevere tutti coloro che volevano complimentarsi con lui”. Tra coloro che si presentarono, André Malraux, “più borioso che mai”. Entrò al Ritz con un plotone di soldati ai suoi ordini, sfilando come un colonnello fatto e finito, con tanto di lucidi stivali da cavalleria. L’ultima delle sue intenzioni era felicitarsi con Hemingway, il quale rammentò che nel 1937 Malraux aveva piantato in asso la guerra civile spagnola per scrivere La speranza, “romanzo elevato da alcuni sprovveduti al rango di capolavoro”. Fu subito evidente che il colonnello Malraux si faceva beffe del manipolo di straccioni etilisti agli ordini di Hemingway. Che gli disse: “Peccato non aver potuto contare sulle tue magnifiche truppe quando abbiamo preso Parigi”. E intanto, uno dei suoi straccioni, in un alito di Armagnac gli sussurrava all’orecchio: “Possiamo fucilare questo coglione?”.

“Quando abitavamo nell’appartamento sopra la segheria al 113 di rue Notre-Dame-des-Champs, la Closerie de Lilas era il più vicino tra i buoni locali, e del resto era uno dei migliori caffè di Parigi. Un tempo la Closerie era stata un caffè dove si incontravano più o meno regolarmente i poeti. L’unico poeta che ci vidi fu Blaise Cendrars, col suo viso sformato da pugile e la manica vuota appuntata alla spalla, mentre si arrotolava una sigaretta con la sola mano che gli restava. Era simpatico finché non beveva troppo. Quella sera ero seduto davanti ai Lilas guardando la luce che mutava sugli alberi e i caseggiati e il passaggio dei cavalli, grossi e lenti, lungo i boulevard. La porta del caffè si aprì alle mie spalle e ne uscì un uomo che raggiunse il mio tavolo. ‘Oh, sei qui’ disse. Era Ford Madox Ford. Ansimava sotto un paio di baffetti sporchi, ritto come un barilotto, rigido e ben vestito”.


L’epitome di quella civiltà della “sicurezza” e del benessere raccontata da Stefan Zweig ne “Il mondo di ieri”


Questa Parigi degli anni Trenta, frequentata da americani squattrinati e da artisti, pittori e poeti, e canonizzata letterariamente proprio da Hemingway, era in realtà la coda di un fenomeno cominciato lì tra Seicento e Settecento e che nel giro di due secoli avrebbe toccato l’apice: quello dei caffè. Occasione di simposio, di svago ed epicentro di discussioni politiche e letterarie, la storia culturale dell’Europa si è fatta nei caffè. Certamente nei teatri, ovviamente nelle accademie, indubitabilmente nelle università, ma sono stati i caffè che hanno offerto alla civiltà europea qualcosa di più, un ideale esistenziale di dolcezza di vivere e una certa flânerie del pensiero che ha favorito lo sviluppo di due arti fondamentali oggi in disuso: l’arte dell’osservazione e l’arte della conversazione. (Per i pittori, anche l’arte del disegno dal vero – bellissimi i bozzetti di George Grosz che ritrae la gente che legge o discute nei caffè berlinesi). Insomma, i caffè furono l’epitome di quella civiltà, storicamente e politicamente parlando, della “sicurezza” e del benessere raccontata da Stefan Zweig nel capolavoro Il mondo di ieri. La civiltà della parola parlata.

“L’arte della conversazione,” ricorda Orlando Figes ne Gli europei a proposito dello sviluppo di Baden-Baden, “era tenuta in così grande considerazione che il massimo luogo di ritrovo al centro della cittadina, il Casino, si trovava nella Sala di Conversazione”, ossia uno spazio cui accedevano gli ospiti delle terme e che era, di fatto, un grande caffè all’aperto. Nei caffè europei si sono riunite persone e idee che hanno cambiato la storia. Caffè che sono diventati veri e propri simboli. come per gli Illuministi il Café Le Procope (aprì a Parigi nel 1686 e fu fondato dall’italiano Francesco Procopio) o, in seguito per molti intellettuali il Café de la Paix, il Cafè de Flore e La Rotonde. A Lisbona il caffè A Brasileira ospitò Fernando Pessoa e Aquilino Ribeiro. I poeti e gli uomini d’affari, in Inghilterra, affollavano i Coffee House. I risorgimentali italiani si riunivano in luoghi come il caffé dell’Ussero a Pisa e gli scrittori al Quadri o al Florian di Venezia. Numerose personalità – alcune, ancora lontane dall’esserlo – trovarono nei caffé una tana, un pensatoio, un quartier generale, un palcoscenico, un fuoco intorno a cui riunirsi per discutere, litigare, sbronzarsi, filosofare. Talvolta gli spazi si convertivano: da un momento all’altro un caffè poteva diventare un cabaret o una galleria d’arte.


Al Café Imperial della capitale ceca si potevano trovare un biliardo, strani personaggi e Franz Kafka


Franz Werfel aveva sempre un tavolo riservato al caffè Louvre di Praga. Al Café Imperial della capitale ceca si potevano trovare un biliardo, strani personaggi e Franz Kafka. Al Café El quatre gats di Barcellona Picasso espose per la prima volta e con Santiago Rusiñol disegnò il menu e i manifesti del locale – Woody Allen ci ha girato alcune scene di Vicky Cristina Barcelona. Nelle sale del San Marco di Trieste si aggira ancora il fantasma di James Joyce e al Garibaldi riecheggiano le voci di Italo Svevo, Umberto Saba e Scipio Slataper. A Leopoli i caffè favorirono l’incrocio tra le culture yiddish, ucraina e polacca, e al caffè Pilvaux di Budapest Sándor Petöfi declamò a memoria – aveva dimenticato il testo dal tipografo – i versi di un canto che influenzò tutta la letteratura ungherese.

Tutte chiacchiere da bar. Ma anche letture. “I caffè rappresentarono un’istituzione sui generis, senza paragoni al mondo”, scrive Zweig. “Una sorta di club democratici e accessibili a tutti al modico prezzo di una tazzina di caffè in cui ogni cliente, in cambio di questo piccolo obolo, poteva restarsene seduto per ore a discutere, scrivere o giocare a carte, evadere la propria corrispondenza e soprattutto leggere un numero infinito di quotidiani e riviste. Nei migliori caffè di Vienna non si trovavano soltanto tutti i giornali viennesi, ma anche quelli dell’impero tedesco, quelli francesi, inglesi, italiani e americani, oltre a tutte le più importanti riviste di arte e di letteratura del mondo intero: il Mercure de France così come la Neue Rundshau, lo Studio e il Burlington magazine. Nulla ha contribuito alla vivacità intellettuale e all’orientamento internazionale degli austriaci quanto la possibilità e la facilità di informarsi al caffè sugli eventi del mondo, discutendoli con gli amici.”

Stefan Zweig è senza alcun dubbio l’aedo di quel mondo perduto, il mondo che ha visto la gente gremire i caffè e affiliarsi alla serate dei bohemien origliando le discussioni ai loro tavoli. “Se per esempio si stava discutendo di Nietzsche e uno interveniva con ostentata noncuranza dicendo: ‘Nella sua idea dell’egotismo, però, Kierkegaard gli è superiore’, subito ci preoccupavamo: ‘Chi è questo Kierkegaard di cui noi non sappiamo niente?’”. E così uno si precipitava nelle biblioteche – prosegue a raccontare lo scrittore, rievocando la sua giovinezza assetata – per trovarlo e leggerlo, per poi tornare al caffè tronfio e triumphans, smanioso di accedere a qualche discussione che lo annoverasse. Joseph Roth, nel romanzo Zipper e suo padre, racconta un caffè viennese. “A volte il caffè somigliava a un campo invernale di nomadi, a volte alla stanza da pranzo di una casa borghese, a volte alla sala d’attesa di un palazzo patrizio, a volte a un caldo paradiso per assiderati. Solo quando metteva piede in quel caffè, Arnold trovava scampo dalla sua giornata. Solo lì cominciava la sua libertà”. Comprensibile che “volesse solo stare al caffè, star seduto al caffè”.

E comunque, non solo Café de Flore o Café Griensteidl: anche in Germania, anche a Berlino, era tutto un pullulare di locali noti e meno noti, di angoli ricavati, di bugigattoli vivacissimi. Oggi il nome del giovane poeta Ludwig Jacobowski non dice più nulla, ma agli inizi del secolo fondò “La società”, rivista berlinese cui anche Zweig collaborò. E un’associazione chiamata “Quelli che verranno”, i cui membri si riunivano in un piccolo locale in piazza Nollendorf. “Quella brigata, che traeva libera ispirazione dalla Closerie de Lilas di Parigi”, racconta Zweig, “annoverava tra le proprie fila gli elementi più disparati: poeti e architetti, snob e giornalisti, ragazze che si atteggiavano a scultrici, studenti russi e biondissime studentesse scandinave. Di tanto in tanto qualcuno leggeva drammi o poesie”. Tra gli avventori, Peter Hille, un settantenne “con gli occhi bonari da cane” che si cavava dalle tasche biglietti spiegazzati e declamava versi scritti a matita in tram o al caffè. Eternamente senza un soldo, ospite dei divani altrui per la notte, era un grande poeta “che non aspirava a nulla e nemmeno a diventare celebre”.

Zweig conobbe la Parigi precedente di vent’anni l’arrivo di Hemingway. “Com’era spensierata la vita a Parigi, com’era bella. Anche solo gironzolare per strada era una gioia e una continua lezione”. Caffè compresi. “Mi ero seduto al caffè Vachette e mi ero fatto mostrare, colmo di venerazione, il posto di Verlaine e il tavolino di marmo sul quale, da ubriaco, era solito battere il bastone per farsi rispettare”. Caffè che disegnano una mappa della cultura europea o i sussulti delle più influenti avanguardie: le attività dei surrealisti si svolsero soprattutto al caffè Cyrano, in place Blanche.


Registrano i sussulti delle più influenti avanguardie: le attività dei surrealisti si svolsero soprattutto al caffè Cyrano


“Al caffè La Coupole, con Man Ray e Aragon, organizzammo la prima visione di Un chien andalou”, racconta Louis Buñuel, che si sedette anche ai gloriosi tavoli del caffè Gijon di Madrid, raccontato in un capolavoro poco noto, La notte che arrivai al Café Gijon del dandy Francisco Umbral. “Ho trascorso ore deliziose nei bar”, confessa il regista nelle sue memorie, “luoghi di meditazione e di raccoglimento, senza il quale la vita è inconcepibile. Come san Simeone stilita che, appollaiato sulla colonna, conversava con Dio, ho trascorso nei caffè lunghi momenti di sogno. Si può forse immaginare Parigi senza i caffè?”. No. E nemmeno l’Europa. “Il caffè presuppone la discussione, l’andirivieni, e l’amicizia delle donne”.

Il consiglio, a questo punto, è di andare su YouTube. E cercare il video in cui Louis Buñuel si prepara, in silenzio, un Martini dry. Nella sua autobiografia scrive: “Oggi, vecchio come il secolo, non esco più di casa. E solo nella mia stanzetta, all’ora sacra dell’aperitivo, con tutte le mie bottiglie intorno, rievoco, uno per uno, i caffè che ho amato”.


Brindiamo a quel mondo svanito, a una civiltà della parola e all’arte di incontrarsi.

Leave a comment

Your email address will not be published.