Belli questi Giochi, con buona pace dei fautori del riequilibrio mondiale

Le Olimpiadi e lo scontro di civilità. Ha tanti mali l’occidente, ma esiste, va forte e alla cerimonia di chiusura abbiamo visto la festa per la fine della sua decadenza

La cerimonia di apertura era stata una celebrazione di Parigi, e Parigi è di tutti, può alzare le spalle anche quando chiede scusa. Un’alleanza improvvisata di patriarchi moscoviti e bellimbusti trumpisti e vescovi francesi si era scandalizzata. Lo scandalo era nei loro occhi. Il tentativo di ricondurre i Giochi alla posta della guerra mondiale in corso, tradizione contro perversione dei costumi, credette di far breccia sul sesso di Khelif, col buffo risultato di mettere l’intera Algeria dalla parte di Dioniso e la presidente del governo italiano a negoziato apollineo col presidente del Cio. Lo scontro di civiltà esiste infatti, ma è più macchiato di una pelle di leopardo. I malcontenti e i professionisti del malumore provavano a denunciare la bancarotta dei Giochi: che non sono mai andati così bene. La Senna – se avesse un mare… –, Macron, radi buchi nell’acqua. Certo, poteva lasciare la sua tettoia e andare a bagnarsi la testa con Mattarella, gli è sempre mancato il tratto umano, quello che fa invitare i quarti, e la volta prossima anche i quinti arrivati. E beati gli ultimi. Intanto, tutto il pianeta partecipava – la Russia ufficiale aveva scelto un altro concorso, lei ha 6 mila atomiche – e tutto il pianeta guardava. La questione, direbbero gli esperti, era oggettivamente geopolitica. La cerimonia di chiusura è sembrata prendere in ostaggio gli atleti dei cinque continenti, mai ostaggi più felici, per squadernare agli occhi dell’intero pianeta il famoso occidente. Guardate, voi pastori erranti dell’Asia, peraltro vincitori di un mucchio di ori da lottatori, voi ragazze di Saint Lucia, 620 chilometri quadrati e la medaglia d’oro nei 100 metri piani di Julien Alfred, 10” e 72, voi miliardo e mezzo di cinesi, imbattibili a ping pong e in molto altro, voi 9.248 residenti di Roncadelle (Brescia) e tre medaglie, voi kenioti in piazza contro il governo da un mese a Nairobi, con qualche interruzione per seguire le vostre 17 medaglie, voi giovani donne iraniane, mentre i vostri bruti sfogliano la margherita della risposta a Israele – e così via: il mondo che Parigi ha messo in mostra così teatralmente e scintillantemente, così sfacciatamente, è quello in cui vi augurereste di abitare, o quello che minaccia i vostri valori, la vostra identità – il vostro? Gli organizzatori olimpici contano fra loro influenti rappresentanti dei regimi impegnati a certificare e fomentare la decadenza dell’occidente. Non credo che si fossero proposti di mettere in mostra, con i mezzi ingenti di cui disponevano, l’altra faccia della sfida che si va giocando (la parola resta quella, giocare) con le armi minacciate o brutalmente impiegate. Però è quello che è successo. E ha prenotato per sé un ragguardevole lasso di tempo, dimostrazione di ottimismo o di sicumera, dal momento che fra quattro anni toccherà a Los Angeles, dove Tom Cruise è già arrivato in motocicletta in mondovisione, incredibile, e Billie Eilish e Snoop Dogg erano pronti ad aspettarlo, e fra altri quattro anni toccherà a Brisbane, Queensland, l’occidente all’estremo oriente.

E le facce, e i colori e le fisionomie delle atlete e degli atleti che si sono cimentati per i paesi europei e hanno vinto tante medaglie che messe insieme avrebbero eclissato gli altri concorrenti, non avranno fatto decidere a tante più e tanti più giovani del mondo già terzo di incamminarsi e imbarcarsi, il tutto per tutto, alla volta della torre Eiffel?

Verrebbe da concludere che l’occidente esiste, non solo, ma va più forte che mai, e ha appena passato la consegna a Hollywood, il suo sacrario. Naturalmente, non è così. E’ quasi così. I fautori del riequilibrio mondiale, del multilateralismo inopinatamente eccitato dalla sciagurata invasione putiniana dell’Ucraina, e dall’oltranza della risposta israeliana all’oltraggio del 7 ottobre, hanno una carta che credono imbattibile: misurano in blocco gli stati i cui governi deplorano il modo di vita occidentale, quello che “non distingue più fra uomini e donne”, e si scrollano di dosso la mania occidentale di dominio militare ed economico. Fatti così i conti, quella parte di mondo risulta loro più numerosa e più ricca: il futuro è suo. Cadono infatti gli imperi, e quanto più arroganti sono e accecati dalla potenza, tanto più rumoroso è il loro crollo. La cerimonia di chiusura di Parigi è la pirotecnia finale, il botto, dell’impero occidentale alla fine della sua decadenza.

I blocchi, scesi al livello delle persone, non esistono. I Brics e associati sono trapuntati di occidenti agognati, e l’occidente è traforato di ottusità e privilegi e nostalgie di illibertà. Persone attraversano deserti e mari per venire da noi perché ci immaginano migliori, e spesso sbagliano: ma non sbagliano quando sentono peggiori i loro. Alzano un cartello con su scritto: Liberate le donne afghane, perché ci hanno presi in parola, e noi le espelliamo, perché non ci prendiamo in parola.

Sono state molto belle, queste Olimpiadi. Erano a rischio, passo dietro passo. Il giorno dopo, scommetterei su Kamala Harris e Tim Walz. Per sentire quanto sia stata splendida la vittoria del volley femminile occorre immaginare per un momento come sarebbe andata se avessero perso. Ce li abbiamo, i nostri paladini della tradizione, sono i nostri corpi estranei, ingrassano. Lo scontro di civiltà infatti è un corpo a corpo, per questo le Olimpiadi sono il luogo ideale del suo cimento. Le ragazze ucraine hanno saltato molto alto. Un astista svedese cittadino statunitense dal nome francese e dal soprannome Mondo ha alzato di un centimetro il record del mondo, all’ultimo salto, come insegnò l’avaro Bubka. Il vecchio Curry ha fatto quattro triple di seguito – mio fratello me l’aveva detto, ho un fratello cestista.

Alla fine Yseult ha cantato “My Way”, così il grande pubblico ha imparato che l’originale era francese, “Comme d’habitude”, di Jacques Revaux e Claude François, e che l’aveva tradotto Paul Anka. Non gli hanno detto il meglio, che François scrisse anche “Le téléphone pleure”, nota a noi come “Piange… il telefono”. Modugno, memorabile, canzone e film – “devi dire a mamma…”.

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