Dietro il successo olimpico della disciplina olimpica col pallone ovale tanto contestata dai puristi del rugby
Un po’ come il calcetto rispetto al calcio, un po’ come il tie-break rispetto al meglio dei cinque set, un po’ come il beach volley rispetto alla pallavolo. Il rugby a sette è la versione “light”, “smart”, “turbo” nonché olimpica del rugby tradizionale, quello a 15. E ai Giochi di Parigi, complice anche la vittoria finale della Francia su Figi, ha spopolato. Diciamolo subito: non è una novità. Era il 1883 – questa la genesi più credibile – quando un club scozzese, al verde, decise di organizzare un torneo a inviti per fare cassa. Si narra che l’idea brillò a un giocatore, calciatore pentito, rugbista convinto, macellaio di professione: Ned Haig, per rendere più veloce la competizione, suggerì di accorciare i tempi di gioco, non due frazioni da 40 minuti ma due da 15, e soprattutto di dimezzare i componenti delle squadre, da 15 a sette. Morale: un trionfo.
Troppo conservatore, il mondo del rugby, per convertirsi allo spettacolo del Seven (così, in gergo ovale). Troppo religioso, anche. Tanto che, alla nascita del rugby a 13, si parlò di diaspora, tradimento, eresia. O di qua o di là. Di qua i puri, i dilettanti, i fedeli del rugby a 15; di là i mercenari, i professionisti, i dissidenti del rugby a 13. E quelli del Seven relegati ai tornei di fine stagione, metà feste e metà sagre, per divertimento e per beneficenza. In tempi moderni, due grandi appuntamenti: l’Heineken ad Amsterdam e l’Algida a Roma. Il rugby a sette prevede tre uomini dentro e quattro fuori: tre per le mischie e le touche, tutti e sette per il resto, cioè corsa a perdifiato. La filosofia è impadronirsi del pallone, mantenerne il possesso e, al primo spiffero, creare un buco e tagliare, infilare, trapassare la difesa avversaria. Quindi grande gioco di mani e grandissimo gioco di gambe. Quindi niente sportellate e sfondamenti ma dribbling e slalom, cambi di passo e direzione, finte e controfinte. Intanto i due tempi sono stati ridotti a sette minuti. Anche perché la squadra che procede dopo i gironi eliminatori e gli incontri a eliminazione diretta, rischia di giocare dalla mattina alla sera.
Il rugby è olimpico da quasi sempre. La prima volta nel 1900, a Parigi, la seconda edizione dei cinque cerchi, complice Pierre de Coubertin. Il barone si era innamorato della palla ovale durante un viaggio in Inghilterra: era il 1883, lui aveva 20 anni e, diventato arbitro, nel 1892 diresse la finale del campionato francese. Per il debutto olimpico, al Velodromo di Vincennes, tre squadre: la nazionale francese, i tedeschi dello SC Frankfurt e gli inglesi dei Mosley Wanderers (che, neppure in 15, ottennero giocatori da altri club). Oro alla Francia, argento per gli altri. La seconda volta, a Saint Louis nel 1908, due sole squadre, e l’Australia travolse l’Inghilterra. La terza volta nel 1920, la quarta nel 1924, quindi il buio oltre i pali, prima per l’indifferenza del mondo del rugby, poi per il rifiuto del Comitato olimpico. Finché nel 2016 fu accolta la versione ridotta, quella a sette, allargata anche alle donne. Le gerarchie dei valori – a 15 o a sette – non sono identiche, ma quasi: Nuova Zelanda, Australia e Sudafrica comunque, Francia meglio delle britanniche, super Figi, bene Kenya. In Italia il Seven non ha vocazione né ispirazione, si fa perché si deve, nei club è ancora inteso come preludio a feste fondate su salamelle e birra. “Il rugby a sette – è l’opinione di Elvis Lucchese, autore di “Pionieri–le origini del rugby in Italia 1910-1945” – è ritenuto da alcuni televisivo e spettacolare. Ma è rugby un rugby senza mischie? Quanto un asado senza carne e il rock senza chitarre. A me piace il rugby con le mischie e considero tutte le altre versioni ‘rugby’ solo in quanto funzionali alla sua promozione”.
Vietato dirlo ai francesi. Antoine Dupont, mediano di mischia, regista e trascinatore dei Bleus, per un anno ha trascurato la Francia a 15 per dedicarsi a quella a sette, obiettivo Olimpiadi. Ne è valsa la pena. In finale, entrato nel secondo tempo, ha regalato un assist e due mete contro i figiani e fatto impazzire Stade de France e telespettatori. Parentesi chiusa. Adesso tornerà alla versione tradizionale. Se ne riparlerà fra tre o quattro anni: Los Angeles.