Kafka in passerella. Dizionario dei recentissimi luoghi comuni della scrittura di moda in nome della cultura

Fra grande sfoggio di citazioni (sempre le stesse) e figure retoriche scombinate, ecco una domanda e una prece: se qualcuno sa ancora descrivere un vestito per quello che è, si faccia avanti per favore

Il tema moda e cultura appassiona, come sport e cultura o come cibo e cultura, con questa parola – cultura – appiccicata a discipline considerate di per sé triviali, che avrebbe perciò il compito di riscattare da un presente e da un futuro sguaiati. Non si può più, pare, osservare la bellezza di un vestito semplicemente e descriverlo per come è fatto; o apprezzare il pathos di una competizione senza caricarla di aggettivi e di neologismi e di tecnicismi; o gustare la squisitezza di una pietanza giudicandola per il suo sapore e non per come è disposta sul piatto. Si deve dare spessore a queste emozioni con rimandi e citazioni colte, tratte però dal catalogo di idee ricevute, pur senza sapere da dove vengano, tra“esperienze kafkiane”,“banalità del male” e“l’uomo è ciò che mangia”.

Si vive nel luogo comune allargato. Un tempo era l’ideologia, la protesi perniciosa alle parole moda-calcio-cibo, un modo per giudicarli in linea con quegli anni, e nei miei ricordi di adolescente compaiono la mia e le madri dei miei compagni di liceo chine a testa bassa con un paio di forbicine a cercare di rimuovere il ricamino del coccodrillo dalle Lacoste che ci regalavano e che noi non volevamo; oggi sembra preistoria: prevaleva il cretino che era in noi e ci vergognavamo a uscire con quella lucertola posizionata a sinistra, proprio sul cuore, era quella la cultura della moda alla fine degli anni Settanta mentre, dagli Ottanta, nessuno si vergognava più ad ostentare alcunché. Il calcio poi, era pura ideologia: uno sport di prestazione speculare alla produttività del mondo capitalistico che replicava la divisione del lavoro, si mercificava e si poneva incentivi di profitto, come facevano i padroni; il cibo dipendeva dalla sua abbondanza e dalla sua scarsezza, erano tempi – mica come nel mondo al contrario di oggi in cui i ricchi erano grassi e i poveri magri.

A scrollare Instagram oggi si vedono recensioni di sfilate analizzate dagli specialisti a colpi di metafore, il sofisticatissimo linguaggio social nelle caption dei critici saccheggia Genette, il paratesto e le metonimie e per dire che un cappotto nero apre e chiude una sfilata si scomoda addirittura il chiasmo che dall’incipit dell’”Orlando Furioso” precipita nell’ultimo defilé di Dries van Noten. Ma non c’è una giovanissima Lucia Sollazzo che sappia più descrivere un vestito, un colore, un tessuto come faceva lei sulla“Stampa”? e poi, per forza, riversava quella bravura in poesie da Serie Bianca? Una Irene Brin contemporanea spunterà prima o poi all’orizzonte? Una Pia Soli, che esercitava il suo stile raffinato sulle colonne di quel giornalaccio che era allora“Il Tempo”? La cultura della moda era a Torino e a Roma, altro che Milano e quelle decane del giornalismo di moda davano punti agli orecchianti youtuber di oggi.

Esisterà una scuola di scrittura che insegni a descrivere una sfilata parlando dei vestiti invece di appiopparci la sociologia della casalinga di Voghera? Una partita raccontata da un figo in un buon italiano, senza neologismi astrusi e limitando i tecnicismi, imparando il sense of humour da quei due di Contenuti Zero su TikTok, con le parodie delle telecronache dal Colosseo, Impero Romano contro Elvezia, Astereopaus contro l’elefante del Marocco, con i break tratti dall’Amphitruo di Plauto? Ci sarà uno chef che non scrive libri e che non destruttura le cipolle come fa Giorgio Armani con le giacche? Per ora no.

L’equivoco sulla cultura rimane intatto. Qualcuno ha creduto di risolvere il problema affermando che la moda “è” cultura, come il football e il food, ma poi i docenti a contratto delle università del fashion si incartano perché si trovano a spiegare vestiti che somigliano a una raccolta di caricature e varie mostruosità, altro che oggetti d’arte. Quando poi a “creare” un vestito, cioè, in parole povere, a tagliarlo e a cucirlo, è un sarto che esce da quell’anonimato nel quale la sua nobile figura di artigiano era stata relegata per secoli e si trova a essere osannato dalle folle, ecco che il perimetro si espande e per necessità promozionali si mandano in passerella grotteschi wonder dress, assurdi e brutti come le wonder car che l’automotive presenta ogni tanto in via Spiga, in via Tornabuoni e in via Condotti per farsi pubblicità e poi tutti seduti a quelle tavole lunghe centinaia di metri a rimirare i cibi emulsionati col sifone gourmet dal cuoco di grido. L’età moderna era ossessionata dalla produzione e dalla rivoluzione, in quella postmoderna siamo assillati dall’informazione e

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