La Nazionale del Sud Sudan dalla guerra al Dream Team

All’esordio olimpico (con inno sbagliato) ha battuto Portorico e perso bene contro gli Stati uniti. La loro non è la storia di un modello virtuoso, di un movimento cresciuto grazie a strutture all’avanguardia. È soprattutto una storia di persone

C’è quasi sempre la guerra nei racconti e nei ricordi dei protagonisti di questa storia. C’è per chi l’ha vissuta, per chi ne è scappato, per chi ne ha soltanto sentito parlare dai parenti. C’è perché non potrebbe non esserci, perché il Sud Sudan esiste soltanto da 13 anni e perché l’indipendenza non è bastata per sfuggire a un destino inesorabile, facendo ripiombare il paese nell’incubo di un conflitto etnico per fortuna concluso ufficialmente nel 2020. “Da quando sono nato, non ho sentito altro che conversazioni sulla guerra. Adesso, finalmente, abbiamo qualcosa di bello da raccontare: ogni sudsudanese è orgoglioso quando si parla di pallacanestro”, ha detto di recente a Bbc Sport Africa Luol Deng, l’uomo senza il quale questa storia, quella della Nazionale di basket del Sud Sudan, non sarebbe esistita.

Non è la storia di un modello virtuoso, di un movimento cresciuto grazie a strutture all’avanguardia e reclutamento giovanile capillare. È soprattutto una storia di persone. Deng era fuggito in Egitto insieme alla sua famiglia da Wau, che all’epoca era una città del Sudan e oggi, ovviamente, fa parte del nuovo stato. Il padre Aldo, da buon politico, aveva trovato il modo di scappare dalla Seconda guerra civile sudanese e aveva consegnato a Luol, senza immaginarlo, un futuro diverso, il passaporto per il successo. Durante lo stallo egiziano, la famiglia Deng viene presa sotto l’ala protettiva di Manute Bol, noto per il suo passato Nba e per i 2 metri e 31 di altezza, un corpo smisurato per un ragazzo che voleva essere un playmaker ma che aveva dovuto fare i conti con la sua stazza. Nella sua scuola di basket al Cairo, Bol forma cestisticamente e umanamente il giovane Deng: la famiglia, alla fine, ottiene l’asilo e si trasferisce nel Regno Unito, a Brixton. Da lì in avanti, un’ascesa inarrestabile: le Nazionali giovanili inglesi, il trasferimento negli Stati Uniti, la high school a Blair Academy e il college a Duke. Quindi, una lunga carriera Nba nel segno dei Chicago Bulls, troppo spesso viene ricordata per un contratto sciagurato fattogli firmare dai Los Angeles Lakers, un quadriennale da 72 milioni sostanzialmente gettato al vento. Quei 72 milioni, insieme a buona parte dei guadagni della carriera, hanno però dato vita al sogno cestistico del Sud Sudan. E se Bol era diventato il padre adottivo dei tanti rifugiati approdati in Egitto, Deng si è mosso nel suo solco: “Manute era un uomo che amava stare al centro delle cose, ha finanziato il governo quanto più poteva per permetterci di raggiungere l’indipendenza”. Dal 2019, Deng sta finanziando il basket nel Sud Sudan di tasca propria, come ha raccontato il coach, Royal Ivey, un altro che ha conosciuto l’Nba da giocatore anche se senza raggiungere i picchi di Deng e che ora fa anche l’assistente allenatore negli Houston Rockets. “Per tutta la vita mi sono sentito dire che non sarei riuscito a fare ciò che avrei voluto. Mi dicevano che non ero abbastanza veloce, non ero abbastanza intelligente. Ho dovuto provare a tutti che si sbagliavano. Luol è diventato una sorta di fratello minore quando l’ho conosciuto a Blair: volevo proteggerlo, ma allo stesso tempo è stata una fonte di motivazione per me”, ha detto Ivey, ricordando poi a che punto è il movimento sudsudanese: “Non abbiamo una palestra, non abbiamo dormitori. Abbiamo avuto un training camp molto duro in Ruanda, poi siamo andati in Spagna. Luol sta pagando tutto questo di tasca sua da quattro anni: palestre, alberghi, voli, tutto”. L’incarico lo ha trovato mentre spulciava su Instagram i profili dello staff della Nazionale. Voleva essere parte del team e la risposta dell’amico Luol era stata cristallina: “Tu devi guidare il nostro team”.

Deng, che era stato la stella della squadra della Gran Bretagna a Londra 2012, ha messo da subito nel mirino le Olimpiadi: a forza di organizzare camp in giro per il mondo, negli anni in cui era in Nba, era venuto a conoscenza dell’enorme quantità di rifugiati sudsudanesi sparsi in ogni angolo del pianeta. Il talento c’era, andava solamente radunato. C’è chi è nato direttamente in un campo profughi come Numi Omot, che ha visto la luce in Kenya e da ragazzino è cresciuto negli Stati Uniti, e chi in America invece è born and raised, come Carlik Jones, il playmaker, che nell’ultima stagione era in Cina ed è promesso sposo del Partizan Belgrado agli ordini di Zeljmir Obradovic, autore di un Mondiale scintillante un anno fa. Wenyen Gabriel è quello con lo storico più rilevante in termini sportivi, tanti anni a lambire l’Nba, due stagioni da elemento della rotazione dei Lakers di LeBron James e un contratto appena firmato con il Maccabi Tel Aviv. “Nel nostro paese non ci sono campi da basket al chiuso, siamo un gruppo di rifugiati che si sono ritrovati qualche settimana fa dopo un anno: tutta questa storia va oltre la pallacanestro, vogliamo mostrare alle persone che possiamo competere e che il basket sarà fondamentale per il futuro dell’Africa. È soltanto una questione di tempo”, ha detto qualche giorno fa a EuroHoops, intervistato da Cesare Milanti.

Hanno iniziato la loro Olimpiade vincendo contro Porto Rico – ed è stato ovviamente il primo successo olimpico nella giovanissima storia del Sud Sudan – e l’hanno proseguita perdendo in maniera tutto sommato onorevole contro gli Stati Uniti, che avevano spaventato in un match di avvicinamento ai Giochi soccombendo solamente nei secondi finali. Hanno cercato di non perdere la calma quando, prima del match di esordio, hanno sentito uscire dalle casse dell’arena di Lille l’inno nazionale sbagliato, quello del Sudan: “L’inno sbagliato ha gettato benzina sul fuoco e ne avevamo già molta nel serbatoio. L’impressione è che molta gente non ci consideri più di tanto, che pensino che non meritiamo di essere qui. Io, invece, penso che ne abbiamo pieno diritto”, ha dichiarato Jones subito dopo il match. All’orizzonte c’è la Serbia, un’altra montagna che sembra complicata da scalare. Ma non chiamatela battaglia: i sudsudanesi sono stufi di sentir parlare di guerra.

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