Ci vuole una fisica bestiale

La scienza di Newton e Einstein è una descrizione incompleta della realtà? Forse. Ma la verità delle sue proposizioni continua a imporsi. Guai ad alimentare sentimenti antiscientifici in nome di fantasmi

Oggi i fisici non usano volentieri il termine “verità”. La parola suona troppo impegnativa, suscettibile di equivoci e tensioni. Preferiscono tenerla a distanza, non affrontarla direttamente. Non era così ai tempi di Newton, che parlava senza esitazione del “grande oceano della verità [che] si stende inesplorato dinanzi a me”. Da dove nasce questo imbarazzo odierno? La fisica è in grado – oppure no – di giungere a qualche verità sul mondo? O magari alla verità tutta intera? Nel corso della storia la questione ha attraversato diverse fasi, in larga parte legate all’evoluzione della fisica stessa. In estrema sintesi, possiamo distinguere due momenti. Il primo fu segnato dal trionfo della fisica classica nel XIX secolo. Per noi non è facile immedesimarci in un’epoca in cui la scienza sembrava davvero offrire la risposta a ogni interrogativo. Le leggi di Newton – poche semplici frasi scritte in linguaggio matematico – descrivevano perfettamente il movimento di ogni singola particella o corpo celeste nell’universo. Un pensiero inebriante e tremendo. E quelle stesse leggi prevedevano fenomeni fino a quel momento totalmente ignoti, poi puntualmente confermati dalle osservazioni. Emblematica fu, nel 1846, la scoperta di Nettuno: l’esistenza di un pianeta sconosciuto era stata dedotta in base alle leggi della gravitazione universale, prima ancora che fosse direttamente osservato. Nessun’altra forma di conoscenza, nessuna civiltà era mai stata capace di tanto.



Ma era solo l’inizio. Le nuove leggi della termodinamica spiegavano in termini quantitativi il comportamento dei gas in diverse condizioni fisiche, aprendo così le porte alla rivoluzione industriale. Non meno impressionante fu l’unificazione da parte di Maxwell dei fenomeni di elettricità e di magnetismo in un unico elegante sistema di equazioni, capace tra l’altro di svelare la natura elettromagnetica della luce. Nel frattempo, Mendeleev scopriva l’ordine periodico degli elementi in base alla loro massa atomica, lasciando intravedere come la chimica avrebbe potuto allinearsi, in ultima analisi, all’infallibile ordine deterministico delle leggi fisiche. Presi dall’euforia, alcuni iniziarono a congetturare che anche la biologia, l’antropologia, le scienze sociali e ogni altra conoscenza un giorno sarebbero state ricondotte alle medesime basi oggettive. L’unica via credibile alla verità sembrava essere quella fondata sull’osservazione empirica, ripetibile e quantificabile, e tutto ciò che non rientrava in quel canone – metafisica, estetica, esperienza religiosa – era guardato con sospetto, considerato irrilevante e destinato a dissolversi come un’illusione. I termini della questione si erano così rovesciati: il metodo della fisica non era più uno strumento per cogliere delle verità sul mondo, ma era diventato il criterio stesso per stabilire che cosa dovesse intendersi per verità.

Ma fu proprio dall’interno della fisica che arrivò la svolta imprevista. All’inizio del XX secolo, la teoria della relatività e la meccanica quantistica scossero le fondamenta dell’edificio della fisica classica. Einstein aveva mostrato che certe grandezze elementari fino ad allora assunte come assolute, come lo spazio e il tempo, sono diverse a seconda delle condizioni dell’osservatore, mentre una certa loro combinazione risulta invariante. Heisenberg e Schrödinger smantellarono l’idea tradizionale di “particella”, su cui poggiava l’antica concezione materialistica, mostrandone la natura sfuggente e controintuitiva. In entrambi i casi, in modo differente, veniva meno la netta separazione tra soggetto e oggetto dell’osservazione. Con l’aggravante, nel caso della fisica quantistica, che i fenomeni sub-atomici risultavano intrinsecamente indeterministici: anche conoscendo perfettamente le condizioni iniziali è impossibile prevedere, se non statisticamente, l’evoluzione del sistema.

Tutto ciò metteva alle corde la nozione consolidata di “verità oggettiva”. Il colpo più duro, paradossalmente, venne dal fatto che le nuove teorie non sconfessavano del tutto la fisica classica, piuttosto ne mostravano il carattere di approssimazione. Le leggi di Newton rimanevano valide come caso limite sia della relatività – per valori moderati di velocità e campo gravitazionale – che della meccanica quantistica – per sistemi macroscopici. Così, quelle che fino al giorno prima erano state esaltate come verità definitive, si mostravano ora come una sorta di abbozzo incompiuto. Chi poteva garantire che una tale situazione non si sarebbe ripetuta di nuovo? Oltretutto fu chiaro fin da subito che la teoria quantistica e quella relativistica apparivano estranee l’una all’altra, preludendo alla necessità di un ulteriore cambiamento di paradigma.


Emergeva così il secondo versante, più debole e più moderno. Una teoria fisica, per sua natura, è incompleta: non descrive mai compiutamente la realtà. Di più: un’ipotesi non potrà mai essere giudicata “vera”, perché, anche dopo mille conferme, la milleunesima potrebbe smentirla. Al massimo potremo ottenere verità di segno negativo: quando un’osservazione confuta un’ipotesi, avremo la certezza che “le cose non stanno così”. Karl Popper ha espresso con lucidità questa visione: “Le teorie sono nostre invenzioni, nostre idee: non si impongono su di noi, sono i nostri strumenti di pensiero, che abbiamo fatto da noi […]. Ma alcune di queste nostre teorie possono cozzare contro la realtà: e quando cozzano sappiamo che c’è una realtà, che esiste qualcosa a rammentarci che le nostre idee possono essere sbagliate”. Così, a poco a poco, la fisica ha finito per smarrire gran parte della sua presa sul mondo: ciò che viene messo alla prova non è più la realtà, ma soltanto le idee che i fisici s’inventano su di essa. E queste, secondo alcune correnti filosofiche più recenti, non sarebbero altro che costruzioni mentali alquanto arbitrarie, determinate dal contesto sociale in cui nascono. Ma è davvero tutto qui?

Negli ultimi decenni la fisica ha confermato la sua prodigiosa efficacia. I fisici hanno sviluppato una visione dettagliata dell’evoluzione dell’universo e familiarizzato con fenomeni estremi di gravità, come buchi neri e onde gravitazionali; hanno affinato il modello delle particelle elementari e la teoria quantistica dei campi, capaci di descrivere il mondo subatomico con precisione sbalorditiva. Tuttavia, l’impalcatura concettuale di questi progressi è rimasta quella del secolo scorso. I due pilastri teorici, quello quantistico e quello relativistico, godono di ottima salute, ma sono ancora lì che si guardano a distanza, ciascuno consapevole della propria incompiutezza, in attesa di una possibile unificazione. Forse anche per questo il dibattito recente sul contenuto di verità della fisica non ha subìto forti scossoni.

Da questo punto di vista, a mio avviso, oggi ci troviamo in una strana impasse. Il positivismo ottocentesco, sebbene storicamente superato, continua a proiettare il suo alone di luce diffusa sulla mentalità comune, alimentando l’idea che la scienza – e la fisica in particolare – rappresenti l’unica via d’accesso alla verità, a discapito di ogni altra forma di conoscenza. D’altra parte, a questa visione si è sovrapposta l’accezione “debole” di verità scientifica, che da pensiero d’élite è penetrata nella percezione comune. Così, ci si aspetta che una persona istruita accompagni ogni giudizio positivo sul mondo con un velo di dubbio, se non di sarcasmo. In definitiva, abbiamo finito per diventare presuntuosi di un esclusivismo scientifico che però, in fondo, sente di non essere in grado di afferrare la realtà. Non è poi così strano che, in queste condizioni, parlare di verità in fisica possa suscitare un certo imbarazzo, o che, per reazione, si assista al diffondersi di vasti movimenti di disistima per la scienza.

Da dove ripartire? Per offrire qualche spunto, più che ragionare in astratto, è interessante osservare alcuni aspetti che emergono dall’esperienza in sé del fare ricerca. Credo che nessun fisico possa negare quanto sia arduo ottenere anche un minimo risultato che abbia senso. Richiede uno sforzo prolungato, paziente, a volte anche un po’ di fortuna. E’ una lotta corpo a corpo con un “ignoto reale”, che ha caratteristiche precise, non scelte da noi, e che ogni giorno ci attende “là fuori”. Questa esperienza semplice ma solidissima basta a escludere che le nostre teorie siano semplici proiezioni del nostro pensiero. Non sono la verità finale sulla realtà, ma ce ne offrono scorci autentici, spesso di rara bellezza. La capacità di prevedere cose sconosciute – come Nettuno per le leggi di Newton o le onde gravitazionali per quelle di Einstein – rimane un’evidenza potente della loro presa sul mondo reale. Anche le leggi quantistiche, che hanno riaperto il ruolo dell’osservatore nell’atto della misura, non hanno nulla di soggettivistico: esse si sono imposte “a forza” alla nostra ragione come il modo in cui di fatto la natura si comporta a livello subatomico. Sotto il velo delle nostre limitate conoscenze non c’è un fantasma, ma il corpo vivo di una realtà che non smette di sorprenderci.

Che la fisica non possa esaurire l’oggetto della sua indagine trova un chiaro preludio nella prima mossa che un fisico compie: la riduzione di una certa realtà alla sua controparte misurabile. Più precisamente, a quel sottoinsieme di proprietà misurabili ritenute essenziali per descrivere la dinamica del fenomeno che si intende studiare. Anche qui, tuttavia, c’è ben poco di arbitrario: per un modello che funziona ce ne sono infiniti che falliscono, ed è sempre la realtà – la verifica sperimentale – a guidare le danze. Ma proprio quando cogliamo nel segno, quando le nostre ipotesi si rivelano fondate e conducono a nuove scoperte, possiamo incorrere in un grave errore. Presi dall’entusiasmo, potremmo dimenticarci che fin dall’inizio abbiamo consapevolmente ridotto l’oggetto a una sua rappresentazione, a una sorta di controfigura perfettamente adeguata allo scopo, ma volutamente parziale. Una tale amnesia può costare cara. Il modello matematico di cui ci siamo serviti si è rivelato vincente, ma resta a una distanza incolmabile dall’oggetto nella sua interezza – una distanza tanto più profonda quanto più complesso e ricco è l’oggetto. Il fatto che, per studiarne il moto, un paracadutista e un meteorite possano essere efficacemente assimilati a punti materiali non significa che un essere umano e un frammento di roccia siano entità della stessa natura.

Credo che ogni fisico, nel fare il suo lavoro, aspiri a raggiungere dei “momenti di verità”. Non solo verità negative – del tipo “questa ipotesi è sbagliata” – ma anche risposte positive, chiare, dirimenti. E, con buona pace di Popper, a volte ci riesce. Questo vale tanto nel lavoro quotidiano quanto nel cammino complessivo della fisica lungo i secoli. Prendiamo, ad esempio, l’affermazione “il Sole è una stella”. Si tratta di un giudizio assertivo, importante, vero, e scientificamente fondato. Una conclusione forte, di natura qualitativa, basata su una moltitudine di osservazioni e misure ripetibili, accumulate nel tempo, che convergono a un’unica sintesi ragionevole: il Sole è una stella di tipo G2V, simile a molte altre, ma eccezionalmente vicina a noi. Nessun fisico – o persona sana e informata sui fatti – ne dubiterebbe. Una tale sintesi non è il risultato meccanico di quelle misure, né l’esito di un algoritmo. Nasce piuttosto dalla capacità della ragione di interpretare indizi e cogliere nessi analogici. In questo senso, affermare una verità positiva comporta sempre un rischio, un impegno di sé. Sono io, con la mia intelligenza e libertà, in piena lealtà alla mia ragione, a giudicare vera, sulla base dei dati, quell’affermazione.




Questa conclusione, inoltre, si impone con un “contenuto di verità” maggiore rispetto alle singole misure da cui scaturisce. Che il Sole sia una stella tra le tante, e non un oggetto unico nell’universo, è una verità di grande portata, che ha sovvertito credenze millenarie: interpella, provoca, ha qualcosa da dire a noi. Ed è proprio questa capacità di parlare alla nostra ragione ciò che riconosciamo come un tratto essenziale della verità. Verità, quindi, non è uguale a logica. Una proposizione può essere corretta, ma irrilevante o perfino insensata fuori contesto. Se passassi le mie giornate gridando a tutti: “due più due fa quattro”, riempirei il mio tempo di affermazioni vere, e il mondo di follia. La verità esige rilevanza, connessione al reale, apertura a un significato più ampio. Ed è nella natura stessa della ragione umana non accontentarsi di verità parziali, ma tendere a un orizzonte ultimo.



Newton, da autentico genio, aveva l’umiltà di chi riconosce con naturalezza il mistero delle cose. Così, alla fine della sua vita, dopo aver spinto la fisica oltre ogni confine allora conosciuto, era ancora dominato dal senso dell’ignoto: il “grande oceano della verità” gli appariva immenso e inesplorato. Sulle spalle di giganti come lui in questi trecento anni abbiamo fatto grandi progressi, ma le acque di quell’oceano si stendono ancora davanti a noi, a perdita d’occhio. Anzi, al crescere delle nostre conoscenze è aumentata anche la consapevolezza della nostra ignoranza: come se, salendo più in alto, vedessimo la superficie dell’oceano dilatarsi su orizzonti ancora più vasti. Eppure, anche se arrivassimo a svelare per intero l’enigmatico ordine del mondo fisico, dovremmo ammettere che la nostra conoscenza della verità sarebbe ancora incompleta. La fisica è straordinariamente efficace nello studio di ciò che può essere tradotto in un modello matematico. Ma non tutte le cose sono di questo tipo. Il senso della giustizia e dell’ingiustizia, o la mia esperienza in prima persona del colore rosso, ad esempio, non lo sono. Con la fisica possiamo studiare l’espansione dell’universo, ma non rispondere alla domanda se esso abbia un senso oppure no.

La fisica è potente nello svelare l’ossatura materiale del mondo – la superficie dell’oceano. Ma per affrontare gli interrogativi più brucianti, quelli sul senso delle cose, sul valore del tempo e degli avvenimenti, sul significato della sofferenza e della nascita, dovremo guardare altrove – nelle profondità delle acque. La superficie invita a cogliere lo spessore sottostante, nascosto agli occhi eppure evidente alla ragione. E’ in quegli abissi inaccessibili che vive il mistero che fa essere l’universo, e si cela la verità intera, quella che ogni nostro gesto – più o meno consapevolmente – attende. Chi, o che cosa, potrà condurci fin laggiù, o venire in nostro aiuto?

Marco Bersanelli è docente di Astrofisica all’Università degli Studi di Milano. Con il suo articolo prosegue la serie estiva del Foglio dedicata alla verità. Ogni settimana un autore diverso si occuperà di osservare questo concetto fondamentale dal punto di vista di una specifica disciplina: giurisprudenza, matematica, astrofisica, economia, politica, informazione, teologia. “La verità, in pratica” di Michele Silenzi è uscito il 15 luglio, “La verità alla sbarra” di Giovanni Fiandaca il 22, “Quale verità per la polis” di Flavio Felice il 29.

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