Entro il 2030 gli Stati Uniti puntano a installare una fonte di energia autonoma sulla superficie lunare per supportare avamposti abitati e presidiare le zone strategiche. L’iniziativa vuole contrastare l’espansione di Cina e Russia, ma solleva domande sul rispetto degli accordi internazionali
Il nuovo amministratore ad interim della Nasa, che è anche il segretario dei Trasporti, Sean Duffy, l’America dovrà impegnarsi a portare sulla Luna un reattore nucleare entro il 2030. Lo ha annunciato il 3 agosto scorso, citando il piano di Cina e Russia di portare sulla Luna un reattore nucleare come una eventualità da evitare o comunque da precedere. I due paesi, che formalmente collaborano all’esplorazione lunare all’interno dell’iniziativa International Lunar Research Station (guidata dalla Cina), sono i principali antagonisti della nuova Corsa allo spazio americana, anche se la scorsa settimana Duffy ha incontrato al Kennedy Space Center, in Florida, il direttore di Roscosmos, Dmitry Bakanov, e le due agenzie hanno ribadito la volontà di mantenere viva la loro “cooperazione nello spazio” – presumibilmente soprattutto per quel che riguarda la Stazione spaziale internazionale.
Ad aprile il nuovo budget Nasa proposto da Trump ha sconvolto il mondo spaziale, con quasi il 30 per cento di tagli proposti e un riallineamento sull’esplorazione di Marte a scapito della Luna. Ora sembra che la parentesi marziana sia finita, dopo che la Casa Bianca si è resa conto che la Cina potrebbe riportare l’essere umano per prima sulla Luna, con un allunaggio programmato nel 2029. L’America, con il programma Artemis, dovrebbe arrivarci nel 2027-2028. Entrambi i paesi sono in forte ritardo, e ci sono dubbi sul fatto che possano farcela entro la fine di questo decennio. Il piano cinese però è più semplice e meno ambizioso, mentre Washington sta tentando di costruire un programma di lungo termine, che preveda anche una permanenza continua di astronauti sulla superficie lunare.
E’ in questo scenario che si inserisce la necessità di un reattore nucleare a fissione sulla Luna. Per alimentare una base lunare abitata non basteranno i pannelli solari, e la Nasa lavora da tempo a programmi atomici: nel 2015 era iniziato il programma Kilopower, un microreattore nucleare in grado di produrre fino a 10 kilowatt di potenza elettrica sulla Luna, poi sono stati studiati reattori da 40 kilowatt, ma quello annunciato da Duffy è arrivato a 100 kilowatt, sufficienti ad alimentare un piccolo avamposto di 3 o 4 astronauti (o un data center di piccole dimensioni). Ma se entro il 2030 ancora non ci sarà un avamposto permanente sulla Luna, a cosa serve un reattore nucleare? Durante il suo discorso Duffy ha detto: “C’è una parte della Luna che tutti sanno essere la migliore. Lì c’è il ghiaccio, lì c’è la luce del sole. Vogliamo arrivarci per primi e rivendicarla per l’America”. Un’affermazione importante, che però sarebbe in contrasto con il Trattato sullo spazio extratmosferico, di cui l’America è firmataria, e che afferma che lo spazio lunare non può essere reclamato da nessuno. Ma nel 2020 con gli “Accordi Artemis” – dei quali l’Italia è uno dei primi 7 stati firmatari – l’America ha creato nuove regole che si applicano agli stati che collaborano al progetto. Una di queste stabilisce la creazione di “aree di interdizione” intorno a siti minerari, scientifici e basi abitate. Zone che, per questioni di sicurezza, sono interdette ad attività esterne.
La Cina non ha firmato gli Accordi Artemis, e nemmeno la Russia. L’interdizione quindi non sarebbe vincolante per loro, a meno che non fosse anche una interdizione nucleare, cioè un sito che per ovvie ragioni di sicurezza sarebbe interdetto a chiunque. Attualmente gli allunaggi hanno precisioni di decine se non centinaia di metri, e un mezzo spaziale che atterra sopra a un reattore nucleare non è una conclusione auspicabile per nessuno, anche se fosse stato posizionato come una sorta bandierina segna posto, in attesa che qualcuno, fra anni, forse decenni, arrivi a costruirci intorno una base spaziale abitata.