Non si sa come andrà. Dove e come finirà la feroce contesa interna a Israele. Una cosa è certa e non ammette divisioni: la Striscia sia libera dal gruppo terroristico
Oggi i capi di Israele, che sono eletti per difendere la patria, tutelare gli ostaggi dei terroristi di Hamas e mettere il popolo in sicurezza, sempre relativa fino alla pacificazione, cioè alla definitiva e assicurata rinuncia del nemico al progetto di annichilimento degli ebrei dal fiume al mare, altro che due popoli due stati, la filastrocca dell’ipocrisia universale, si riuniscono per decidere. All’ordine del giorno l’idea, che ho definito un incubo liberatorio ma da odiare intensamente, di completare in ogni centimetro di territorio l’occupazione militare della Striscia e cercare di eliminare il residuo combattente del partito del terrore, mettendo a rischio gli ostaggi torturati e scheletriti dei tunnel e riportando oltre la misura attuale già immensa di morte e distruzione, ché questo è la guerra, tra i due milioni di palestinesi che sono l’ostaggio di superficie della potente armata dell’ombra e del sottosuolo, arrivata al rigetto del negoziato con il sostegno dei benintenzionati e benpensanti che riconoscono lo stato di Palestina come premio per il pogrom del 7 ottobre. L’alternativa di un patto quale che sia di sopravvivenza di Hamas non esiste.
C’è un’altra strada, proposta da tempo da Naftali Bennett, l’ex primo ministro di un effimero governo di coalizione anti Netanyahu e probabilmente accettabile oggi, dopo le vittorie a caro prezzo ottenute da esercito e aviazione e riservisti su tutti i fronti aperti dal pogrom, per quella parte dell’establishment militare che rifiuta la conquista e la gestione a tempo indeterminato del caos e delle macerie, materiali e umanitarie, cui la Striscia oggi è ridotta dopo due anni quasi di ricatto e dissimulazione e sacrificio della popolazione civile da parte dei predoni che dirigono la scena più tragica del mondo dalla loro fortezza sotterranea, spacciando il ricatto e la minaccia come resistenza, ascoltati con sempre maggiore reverenza dai cinici e dagli allocchi di mezzo mondo. L’accerchiamento totale della Striscia, compreso il confine con l’Egitto, e la perimetrazione militare del territorio per zone sensibili.
Dentro devono entrare cibo e medicine e aiuti sanitari, ma niente che possa aiutare Hamas a mantenere la fortezza sotterranea. Su Hamas, fino alla liberazione degli ostaggi, deve insistere quella pressione oggi odiosamente diretta a imbragare e trattenere Israele dalla sua guerra giusta spacciata per vendetta e punizione collettiva perfino nell’opinione internazionale dei paesi che dello stato ebraico si ritengono amici e alleati. E l’obiettivo è la separazione del popolo dei Gazawi da chi lo tiene stretto nelle catene della guerra e del rischio mortale. Un’impresa, argomentata con la solita lucidità dall’analista conservatore del New York Times Brett Stephens, di mostruosa difficoltà. Insieme con il coinvolgimento della Lega araba e, se non avesse il cervello in acqua, dell’Europa, è l’unica alternativa alla resa al ricatto o alla logica insostenibile di annessione e colonizzazione e deportazione etnica coltivata dall’estrema destra di governo e dal partito del Grande Israele, il Governatorato e gli insediamenti.
Non si sa come andrà. Dove e come finirà la feroce contesa interna a Israele. Come disse una volta Netanyahu “l’islamismo è sottomissione, il giudaismo è discussione”. A Gerusalemme, a Tel Aviv e in tutto il paese l’esercizio della democrazia prevede, come si vede, perfino il conflitto aperto tra la legittima autorità politica e il professionismo eroico dei militari, nessuno è escluso dalle grandi e fatali decisioni, la responsabilità civile è condivisa attraverso la rivalità delle idee, e l’unità si fa perfino attraverso l’odio personale. La “guerra infinita” non l’ha inventata Netanyahu per restare al governo, questo i faziosi di casa nostra rifiutano di capirlo, è nata e continua perché l’insediamento sionista nella Palestina del mandato britannico era al tempo stesso una benedizione e una tragedia. Per questo è così difficile definire la vittoria nella guerra di Gaza, salvo un punto su cui non dovrebbero esserci divisioni: non deve appartenere a Hamas.