La versione gen Z della “scenata”, più estetica e appetibile: il crashing out

I maestri delle scenate li ho sempre ammirati: suscitano nel prossimo un timore reverenziale che fa sì che la loro vita fili liscia per mancanza d’opposizione. Ora la scenata è stata sostituita da una sfumatura più furbetta, da un collasso emotivo più accettabile: i ventenni non fanno le scenate, crashano out

Tu che vuoi fare da grande?”. Te lo chiedono quando è troppo presto, quindi la risposta giusta non la sai ancora, ma dovresti dirgli: le scenate. Li ho sempre ammirati, quelli che sanno fare le scenate. Amore, lavoro, in banca. Cominciano ad alzare la voce, poi più forte, ancora più forte, gli si gonfia una vena del collo, diventano rossi, e l’interlocutore si ritira, sconfitto, per due motivi. Il primo perché si vergogna del pubblico che intanto inizia a godersi lo spettacolo. Il secondo è la paura: se insiste a ribattere, teme, il teatrante finirà al reparto infarti. Dico teatrante perché le scenate sono perlopiù simulate, ma questo lo scopri in seguito, con l’esperienza.

Le ho sempre sognate, le scenate, e mai fatte. Devi pure esserci portato, averci un istinto del leone. Proprio così: a certi piace l’aggressione del monologo urlato come ad altri piacciono le alici fritte. In ogni caso, la ragione essenziale per cui non si fanno, in genere, scenate, non è l’ineleganza. Devi essere come Obama, quando si litiga. Rimanere cool, figo e freddo. Principalmente non si devono far scenate per via della nomea che ti s’attacca. Dopo sarai sempre quello che fa le scenate, il pazzo, lo squilibrato. Quello a cui si dice “sì sì” per levarselo di torno. S’ingenera un timore reverenziale per questi soggetti che fa sì che la vita, a chi fa scenate, corra più facile e più liscia per mancanza d’opposizione. E’ una forma perversa di ricatto, la scenata. Ammetto con amarezza e sconfitta: è quella che dura più a lungo.



Cos’è la scenata? E’ un crollo nervoso, si dice. Ma i crolli nervosi non esistono in medicina, esiste la pazienza che finisce ma quella è un’altra faccenda. La generazione che tutti abitiamo in questi anni (una e trina, dai venti ai 50 non si notano differenze, siamo sempre a lamentarci in un unico afflato) ha trovato l’espressione adatta. Siamo al momento in un’estate di crashing out. L’hanno pure candidata parola dell’anno. “Mi piace che ora esista un termine per dirlo”, dice un’intervistata (24 anni) al New York Times. Se posso chiamarlo crash out, allora forse non sono isterica, non sono problematic. Sono solo dentro la piscinetta emotiva prevista dal mio tempo. Mi sia concesso.



Ci ricordiamo bene com’era: i modi del Novecento per descrivere l’autore di scenata erano alcuni clinici, altri moralisti. C’era riprovazione: ti si sta spezzando la spina dorsale del buonsenso, stai disconnettendo le abilità diplomatiche. Attento ché stai per essere ghettizzato, ora finisic nella categoria dei non-frequentabili-se-non-lo-stretto-necessario-per-non-fargli-sospettare-che-non-vuoi-vederli-mai-più. E’ finito l’apartheid. Ora si dice “crashing out” su Tiktok e liberi tutti.



I boomer facevano scena. Gli Ics avevano il disagio, i Millennial stavano col breakdown. Nessuno ancora crashava out, che ha una sfumatura più furbetta, è un collasso estetico accettabile che viene dall’incertezza dei tempi, dal sovraccarico digitale delle notifiche (poveri noi, ci fanno soffrire le palline rosse), dal giudizio sociale, e naturalmente dal sempreverde odio sociale che viene dalle vite migliori della tua sull’Instagram.


Crashing out è insomma una specie di crisi con regia interna, raccontabile sui social. Dicono che ci si potrebbero pure far dei soldi, con il post giusto. E’ o non è quello che tutti vogliono, quello che imperversa al cinema e nei libri, e cioè una reazione disfunzionale a un contesto emotivamente ingovernabile? Siamo così, dolcemente complicati e persi. E poi sopraffatti, con un senso di ridicolo che non ci lascia mai, pessimisti all’ultimo stadio con visione di catastrofe dopodomani. Il racconto dell’esaurimento nervoso lo fai aesthetic, un leggerissimo collasso anti-cinematografico, non si sviene e nessuno sbatte la porta.



Resta solo un problema. Che il “non ce la faccio più” è un’arte. Se il tappo salta con troppa grazia, che pressione volevi che ci fosse? Ma chi ti crede? Non funziona così. Una volta che la scenata diventa esperienza comune e condivisibile, hai perso tutto. O Filumena Marturano, o lascia stare, non è cosa per te.

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