L’umorismo e la poesia di Jim Jarmusch, cantore di stralunati vagabondi. Film e musica alla Cineteca di Bologna
Un solitario killer-samurai della mafia newyorkese ascolta musica hip-hop e comunica solo attraverso piccioni viaggiatori. Un imbranato contabile di Cleveland viene scambiato per un poeta mistico inglese da un nativo americano nel grande West di fine ’800. Un vampiro musicista di Detroit appassionato di chitarre vintage travestito da medico beve sangue comprato di soppiatto in ospedale. Zombi senza pace ascoltano musica country e autisti di bus di linea scrivono poesie minimaliste. Musicisti squattrinati, attori falliti, giocatori d’azzardo e vagabondi tutti accomunati da un amore sconsiderato per caffè e sigarette e per perdere tempo in avventure grottesche: sono solo alcuni dei personaggi raccontati dal regista Jim Jarmusch, l’esponente più autorevole della “New Wave” anni 80, autore di quel nuovo modo di fare cinema narrativo, non propriamente sperimentale, disinteressato a mode e tendenze, principe dell’umorismo nonsense e della poesia degli outsider. Nato nel 1953 a Cuyahoga Falls, periferia di Akron, Ohio, la capitale mondiale dell’industria della gomma da pneumatici e città natale di due seminali rock band underground come Devo e Cramps, fin dall’inizio della carriera ha costruito il suo immaginario visivo in stretta simbiosi a musiche sempre sorprendenti, dal jazz-punk di John Lurie alle chitarre liquide di Neil Young, dall’hip-hop zen dei Wu-Tang Clan al funk etiope di Mulatu Astatke. Da qualche tempo si presenta in pubblico anche in veste di musicista con il nome di SQÜRL, insieme al produttore dei suoi film Carter Logan e al liutista olandese Jozef Van Wissem, con i quali ha realizzato molte colonne sonore.
Il direttore Gian Luca Farinelli dice che il Festival del Cinema ritrovato “è stato creato proprio per poter un giorno invitare Jarmusch”
Di recente il regista dalla folta capigliatura bianca e l’inconfondibile placida voce baritonale è passato da Bologna ospite del Cinema Ritrovato che, a detta del direttore della Cineteca e cofondatore del festival Gian Luca Farinelli, “è stato creato proprio per poter un giorno invitare Jarmusch”, per presentare alcuni dei suoi film e per suonare le sue lente litanie per chitarre distorte e liuto insieme al fido Van Wissem. In attesa della presentazione del suo nuovo segretissimo film “Father Mother Sister Brother”, che sarà alla prossima Mostra del Cinema di Venezia.
Settantadue anni vissuti nella New York underground. “Father Mother Sister Brother” sarà alla prossima Mostra del Cinema di Venezia
A settantadue anni vissuti intensamente nella New York underground, il regista esordisce al festival con la poesia che scrisse in italiano per Roberto Benigni, attore di due suoi film (“attenzione ragazzi / preparatrici con mitragliatrici / io muoio senza accappatoio”). E celebra con passione il fuoco sacro che i due grandi registi ribelli Nicholas Ray e Sam Fuller hanno appiccato al suo cinema surreale, dove ha sempre raccontato storie marginali di culture ed etnie che si incontrano e spesso si scontrano. “Ad Akron, in Ohio, vedevo soltanto film di mostri, ‘The Crab Monsters’, l’attacco dei granchi mostruosi per esempio”, racconta Jarmusch a un divertito Farinelli, “e dopo essere andato a studiare letteratura e cinema a New York sono andato un anno a Parigi, e alla Cinémathèque Française ho scoperto il paradiso. Ho visto veramente di tutto”.
Un girotondo artistico al contrario: “Attraverso Godard e Truffaut ho scoperto il cinema di Billy Wilder e Sam Fuller”
La formazione artistica di questo regista sui generis è un percorso a ritroso nel tempo e varrebbe di per sé un film dell’assurdo, perché è proprio a Parigi che il giovane filmmaker scopre certo cinema americano fuori dagli schemi attraverso i registi della Nouvelle Vague: “Questa sorta di girotondo al contrario mi ha sempre affascinato moltissimo. Attraverso Godard e Truffaut ho scoperto il cinema di Billy Wilder e Sam Fuller. Che è poi la stessa cosa che è successa nella musica: attraverso James Brown ho conosciuto la musica africana di Fela Kuti”. Tornato in America e iscrittosi alla New York University per studiare cinema, non ha abbastanza soldi per il programma di tre anni, ma il direttore Laslo Benedek, regista de “Il Selvaggio” con Marlon Brando, gli procura una borsa di studio e gli propone di fare da assistente a un regista famoso. Ancora oggi Jarmusch racconta con stupore l’incontro con Nicholas Ray, il ribelle autore di film come “Gioventù bruciata” e “La vera storia di Jess il bandito”: “Sono entrato nella stanza e c’era lui con la sua nota benda sull’occhio, un foulard alla francese, mocassini senza calzini, un personaggio veramente particolare. Mi fa sedere e mi chiede cosa ne so della parola ‘dialettica’. Io rimango lì un attimo e dico ‘tesi, antitesi, sintesi… la dialettica hegeliana’. ‘Perfetto’, fa lui, ‘benissimo, sei il mio assistente’. Gli ero piaciuto. Ero passato con quello”.
E’ l’inizio degli anni 80, a New York è in piena esplosione la scena artistica post-punk, con artisti come Jean-Michel Basquiat, scrittori maledetti come William Burroughs e band come Television, Talking Heads e Blondie che si esibiscono in locali malfamati come CBGB’s e Max’s Kansas City. Jim comincia ad assistere Ray nelle sue lezioni ma la salute dell’anziano maestro peggiora molto e la manciata di studenti si trasferisce nel suo loft a SoHo: “Alla fine rimasi soltanto io, quindi praticamente stavo sempre a casa di Nick. A un certo punto insieme a Wim Wenders dovevano fare un film su un falsario d’arte. Quando Nick andò in ospedale io rimasi a dormire a casa sua per rispondere alle telefonate. Una grande perdita, è stato chiaramente una figura importantissima per la mia vita, il mio vero mentore. Per me era interessantissimo già da prima, un innovatore, uno dei miei registi romantici americani preferiti. Grazie a lui ho conosciuto molto bene anche Wenders”.
Nel 1980 Wenders e Ray firmano a quattro mani “Lampi sull’acqua – Nick’s Movie”, il documentario che racconta in modo toccante gli ultimi giorni di vita del vecchio ribelle con la benda sull’occhio. Jarmusch a un certo punto, seppur non accreditato nei titoli di coda, fa una piccola apparizione: “Anche Wim è stato generosissimo con me nell’offrirmi del materiale inutilizzato dal suo film ‘Lo stato delle cose’ per la preparazione del mio secondo ‘Stranger Than Paradise’, e soprattutto per avermi messo in contatto con Robby Müller, il grande direttore della fotografia olandese”. Come tesi di laurea alla New York University scrive nel 1980 “Permanent Vacation”, la storia del vagabondo Aloysius Parker che va in giro per Manhattan incontrando personaggi bizzarri. Prima di girarla in 16 millimetri, porta a Ray la scarna sceneggiatura: “Mi disse di aggiungere dell’azione, pistole, una ragazza, e io invece gli riportai una nuova versione in cui avevo addirittura tolto delle cose e lui capì che volevo mantenere la mia voce, che la sua influenza mi interessava ma non volevo essere troppo guidato da lui. In qualche modo gli piaceva perché lui era il ribelle per eccellenza”. Già allora l’università indirizza i nuovi registi a lavorare nel mondo reale, in tv, pubblicità, cinema, ma Jim frequenta musicisti squattrinati come Patti Smith e Tom Verlaine e ha le idee chiare sul mondo che vuole raccontare: quello di chi è in cerca del senso della vita, e lo vuole fare a modo suo, soffermandosi sui dettagli minimali della poesia del caso. Sono i vagabondi tagliati fuori da tutto, che non hanno un lavoro e che, dice lui in una vecchia intervista a Guido Chiesa, “non sono coinvolti in qualche tipo di scena underground alla moda. E’ semplicemente gente che puoi incontrare alle corse dei cavalli”. Nell’incontro con il pubblico al Cinema Modernissimo, incalzato dalle domande di Farinelli, il regista tiene a precisare che, oltre a Nicholas Ray, l’altro importante mentore è stato Samuel Fuller, grande innovatore di film di genere come “La vendetta del gangster” e “Il grande uno rosso”, che Jarmusch ha seguito tanto tra New York, Parigi e Los Angeles. Ma è il fugace incontro con Wenders che gli permette di fare un grande salto produttivo riuscendo ad assoldare Robby Müller, autore dell’abbagliante fotografia in bianco e nero di “Daunbailò” del 1986, che lavorerà spesso con lui.
Roberto Benigni in “Daunbailò” e “Coffe & Cigarettes”, Tilda Swinton che dovrebbe essere “la regina del pianeta Terra”
Anche in questo film la trama è molto esile – tre individui poco raccomandabili si ritrovano in carcere nella stessa cella e tentano la fuga tra le paludi della Louisiana – ma il terzetto di attori, i musicisti Tom Waits e John Lurie insieme a un giovane Roberto Benigni, e il black humor surreale, creano un’accoppiata perfetta che porta Jarmusch sotto i riflettori del Festival di Cannes del 1986. I francesi si innamorano subito di questo cinema etereo e bizzarro anche se, nel tempo, la critica, con in testa i “Cahiers du cinéma” che ne avevano decretato la fortuna, storce il naso per gli intrecci narrativi delle sue storie, ritenuti troppo esili. Rifiutandosi di comprendere che è proprio nello spazio fra le cose e i personaggi, e la drammaticità delle loro azioni, che il suo cinema cristallino prende forma. L’esempio più calzante è il film a episodi “Coffee & Cigarettes” (2003) che in realtà raccoglie ben undici cortometraggi, iniziati nel 1986 con avanzi di pellicola dei vari film realizzati, dove personaggi diversissimi e attori disparati (Benigni, Tom Waits, Iggy Pop, Steve Buscemi, Cate Blanchett, Bill Murray) bevono e fumano e parlano di quel meraviglioso niente chiamato vita. Jarmusch cita l’esempio della musica, dove è importante sia il momento in cui si suona come quello in cui non si fa nulla, e porta come altra ispirazione, scoperta nel soggiorno parigino, il regista giapponese Ozu e la semplicità e il rigore del suo cinema, quando “il gioco degli sguardi conta di più di qualsiasi cosa succeda, tanto è vero che sulla sua tomba a Kamakura, in Giappone, c’è un solo simbolo giapponese che è il simbolo ‘mu’, che si fa fatica a tradurre in un’altra lingua, ma in pratica vuol dire lo spazio in mezzo”.
Nell’incontro al Cinema Ritrovato spiazza poi tutti quando puntualizza che fondamentali per il suo cinema sono state anche alcune figure femminili, come l’amica Patti Smith, Thelma Schoonmaker, montatrice prediletta di Scorsese, e soprattutto Tilda Swinton: “Secondo me dovrebbe essere la regina del pianeta Terra”, dice tra gli applausi del pubblico, “dovremmo vivere in un mondo matriarcale con lei a capo. Io farei qualsiasi cosa lei ordinasse o dicesse perché davvero è una persona talmente incredibile che non le sto dietro in tutto quello che fa. Soltanto il conoscerla, avere lavorato con lei è un dono assolutamente incredibile, e comunque ci tenevo a sottolineare che i rapporti con queste donne mi hanno sicuramente aiutato a plasmare un modo di vedere il mondo in maniera diversa. Non so perché ma le donne sono più in gamba, forse hanno meno la zavorra del testosterone”. L’attrice britannica dal fascino statuario ha preso parte a ben quattro suoi film, e nel vampiresco “Solo gli amanti sopravvivono” (2013), che Jarmusch presenta in una piazza Maggiore gremita, la sua bellezza è esaltata nella roteante sequenza di apertura sulla base della ipnotica nenia “Funnel Of Love” della regina rockabilly Wanda Jackson, suonata al rallentatore dagli SQÜRL.
L’altro film presentato al Cinema Ritrovato, da molti ritenuto il suo capolavoro, è il western apocalittico “Dead Man” (1995), in concorso a suo tempo al Festival di Cannes dove viene snobbato e addirittura fischiato: un pallido Johnny Depp fugge dai killer incarogniti assoldati dal mitico Robert Mitchum sulle note avvolgenti della chitarra distorta di Neil Young, colonna sonora composta apposta per Jarmusch: “La musica è estremamente importante anche perché nel film ti segue, si muove con la visione, dà il tempo. Mentre in un libro possiamo andare a rileggere avanti e indietro, la musica è la più bella forma di espressione che l’uomo abbia creato. Anche se da regista io amo estremamente il cinema, perché include in sé tutte le altre forme d’arte. Credo che David Lynch abbia detto ‘il cinema è la cosa creata dall’uomo più vicina al sogno’, ma io credo che la musica sia anche più pura da questo punto di vista, e soprattutto ti dà più libertà”. Lo si è sentito chiaramente nel concerto che Jarmusch e Van Wissem hanno tenuto al Teatro Duse qualche giorno dopo il festival: sul palco spoglio nessuna scenografia, nessun ammiccamento compiaciuto ma solo una gran quantità di amplificatori, un liuto, chitarre elettriche e distorsori vari. Un flusso quasi ininterrotto di note e melodie lontanissime che hanno permesso al pubblico di abbandonarsi a un viaggio senza mappe su strade perdute e dimenticate. Esattamente lo stesso viaggio del regista, che in questo mondo in cui tutti si affannano a darsi un tono si è auto definito “felicemente marginale”.