Mai spendersi troppo per battaglie poco pop, come la libertà delle donne iraniane. Così aggiornano le analisi di Debord sulla “società dello spettacolo”
C’è un palco(scenico) per te. C’è un palco per tutte e per tutti, attrici e attori, cantanti, musicisti, gente di spettacolo, cinema, teatro, cabaret, tv e concerti rock. La nuova classe dirigente della politica, destinata a soppiantare sul piano simbolico quella tradizionale. Di solito perdono le elezioni, come negli Stati Uniti, ma sul palco gliele cantano, eccome se gliele cantano. E’ un fenomeno planetario: declamano, predicano, si indignano, monologano, mobilitano. Si dedicano alla grande Causa (del momento, mai spendersi troppo per battaglie poco pop, come la libertà delle donne iraniane). Aggiornano le analisi di Guy Debord sulla “società dello spettacolo”, che sta diventando a tutti gli effetti la “società dello spettacolo politico”. I politici non vengono più ascoltati, non hanno alcun impatto, appaiono grigi, burocraticamente avvizziti, sfibrati, emozionalmente un disastro. Ma al loro posto c’è il Partito unico delle attrici e degli attori (Puaa). E quando non si dà spazio alle loro arringhe dal palcoscenico, tutto il resto appare spento e molle, senza sale.
Come a Sanremo, per esempio. Quest’anno da parte degli ospiti non un predicozzo, una denuncia, una tagliente provocazione, un gesto di protesta, una messinscena. Nemmeno un flashmob, che diamine. Si sono sentiti defraudati perché, invece dei sermoni, al Festival della canzone italiana, sotto la conduzione soporifera e prudente di Carlo Conti, ci si è limitati a calcare il palcoscenico solo per cantare e non per proclamare qualche verità cara al Puaa. E Roberto Benigni? Che delusione Roberto Benigni, nemmeno una satira tagliente delle sue, un appello sentimentale espressione della parte giusta del mondo. Un inno alla Costituzione “più bella del mondo”, per dire. Un richiamo alla bontà universale. Niente di niente, che occasione perduta, che fallimento politico. E quanti borbottii, dopo. “Benigni addomesticato”, hanno scritto con sdegno quelli dell’ala ultrà: si è permesso di fare l’attore e non l’attore leader politico.
E i nuovi opinion leader del Puaa firmano. Firmano, firmano e controfirmano: non contratti, ma appelli. Firmano sempre gli appelli per la difesa dell’ambiente, per i porti aperti, per ogni minoranza (tranne quella ebraica), per qualunque sezione dello scibile che abbia bisogno del supporto di un palcoscenico capace di ottenere, ecco la parola chiave, “visibilità”. Sono i nuovi protagonisti di quella costellazione di intellettuali che nella Prima Repubblica Nello Ajello chiamava beffardamente il “Firmamento”, l’universo di quelli che firmavano appelli a getto continuo e che godevano pazzamente a nobilitare con la propria presenza qualunque chiamata al fronte dei Buoni. Era così attraente, quel “Firmamento”, da incitare qualcuno ad aggiungere il proprio nome anche ad appelli in contrasto tra loro. Come Corrado Alvaro, che per le elezioni del ‘48 sostenne sia l’appello per il Fronte popolare che quello per la Democrazia cristiana. Ma erano storici, storici dell’arte, scrittori di fama, accademici paludati. Ora i firmatari sono attori e attrici, per lo più. Pierfrancesco Favino e Serena Dandini, Michele Riondino e Alba Rohrwacher, Fabrizio Gifuni e Luisa Ranieri, Lidia Ravera e Zerocalcare e tanti altri proclamano: “Noi sottoscritti, intellettuali, artisti, scrittori e scrittrici” e tantissimi altri, illustri e meno illustri, noi, cioè loro, ci schieriamo testardamente a fianco di Francesca Albanese che, “rischiando ritorsioni personali” (siamo parlando di Liliana Segre? No, non stiamo parlando di Liliana Segre, la sopravvissuta ad Auschwitz bullizzata addirittura nel Giorno della Memoria), “continua a portare testimonianza della verità su Gaza”. Il tono è assertivo, ispirato, veementemente indignato. La difesa di una signora che difende Hamas viene leggiadramente equiparata a “legittime critiche” al governo di Israele. Ma chissà se, mossa da sdegno, la maggior parte di loro avrà letto una sola riga di Francesca Albanese, a cominciare dalla sua reiterata affermazione secondo cui il “genocidio” successivo al 7 ottobre non sarebbe che l’ultimo capitolo di una politica genocidaria incarnata da Ben Gurion e Golda Meir che risalirebbe a ottant’anni fa, cioè sin dalla nascita dello Stato di Israele e forse anche prima, secondo una ricostruzione che non avrebbe nulla da invidiare al cospirazionismo forsennato dei “Protocolli dei Savi Anziani di Sion”. Oppure se hanno dato una sbirciata ai suoi problematici distinguo negazionisti sugli stupri di massa compiuti, filmati e rivendicati da Hamas nel pogrom del 7 ottobre, con le donne ebree abbandonate e oltraggiate anche nei cortei del femminismo occidentale antisionista. No, questo non conta mai. Resta l’atto temerario, così circonfuso di coraggio e di martiri, della solenne ed enfatica predica dell’attrice Anna Foglietta negli ultimi scampoli della cerimonia finale del Premio Strega in cui, dopo stacco sapiente della voce per alimentare un’atmosfera di trepidante attesa, si è sfidato il mondo con un risoluto “Palestina libera” (da dove a dove? Dal fiume al mare? Specificare, please). Non “Ucraina libera”, per carità, non “donne di Kabul libere”, per carità, non “viva gli uiguri deportati a milioni in Cina”, per carità. Ma “viva” ciò che in quel momento appare come la nobile battaglia del Bene contro il Male. Un concerto, un premio letterario, un festival cinematografico diventano noiosi senza il gesto politico di chi per professione sa maneggiare la sfera emozionale con molta più efficacia dei politici di ruolo.
E allora si va a Cannes, nel tempio del cinema, nel luogo simbolo tra i più prestigiosi della cultura artistica cinematografica, la meta più ambita per chi nel cinema crea e lavora, e tutti si aspettano l’ovazione per il grande Robert De Niro, cui tutti noi malati di cinema siamo eternamente grati, che viene sommerso dagli applausi più commossi e trascinanti dopo aver detto a Trump quello che c’era da dire. E allora il grande Bruce Springsteen, che peraltro meriterebbe oceani di applausi per le sue canzoni meravigliose, per l’energia trasmessa con il suo corpo e con i suoi gesti, per la forza vulcanica dei suoi suoni e delle sue parole, raggiunge l’apice del chiassoso consenso dei fan quando insulta a San Siro l’attuale inquilino della Casa Bianca. Solo che mica tutti sono come De Niro e Springsteen. Poi ci sono le seconde e terze file, che mettono in scena lo show nello show per sentirsi sfiorare dalla brezza del dissenso, dell’anticonformismo, del radicalismo politico. Un attore a Londra, alla fine dell’ultima replica del “Trovatore”, ha sfoderato una bandiera palestinese come gesto di sfida e ha resistito all’addetto del teatro che voleva farla sparire tra i mugugni del pubblico pagante ed eccitati dall’imprevista performance dell’artista che ha preso un palcoscenico per Hyde Park. Ma prima di lui era arrivata la nostra Elodie, che dopo un concerto frizzante e nella frenesia di un pubblico adorante, anche lei ha alzato il vessillo della Palestina. E prima dell’attore inglese e prima di Elodie, durante il concerto del celebre Festival di Glastonbury, ci aveva pensato la band Bob Vylan a inneggiare alla morte dei militari israeliani e a reclamare imperiosamente una Palestina libera. Peccato, l’avessero saputo i cantanti e i musicisti del Puaa che si esibiscono nel concertone del Primo Maggio al posto dei capi del sindacati messi ai margini, forse l’Italia artistica sarebbe arrivata prima nella gara per il messaggio più radicale nei palcoscenici di tutto il mondo.
Ma sono oramai anni che si attendono con il fiato sospeso la cerimonia per gli Oscar, l’apertura e la chiusura di Cannes, l’apertura e la chiusura del Festival di Venezia, l’apertura anche di ogni sagra, di ogni concerto estivo, di ogni salone, di ogni fiera, di ogni rassegna, per rivivere il momento magico del Partito unico delle attrici e degli attori in cui vengono lanciati messaggi di impegno incondizionato, sempre con il tremore che qualche crudele autorità repressiva possa poi censurare la puntuta provocazione, il magniloquente proclama, la scomoda denuncia. Perché conta il gesto, anche se il risultato è politicamente nullo, se non addirittura controproducente. Il fallimento politico si è manifestato con dolore quando tutto il mondo cool di Hollywood è salito simbolicamente sul palco per sostenere la causa di Kamala Harris, salutata come la salvatrice dopo il drammatico abbandono di Biden. Beyoncé, forte del clamoroso primo posto nella classifica dei dischi più venduti con “Cowboy Carter” ha pensato che l’alto numero di follower coincidesse senza riserve con un alto numero di elettori: si è sbagliata, e di molto, idem per Taylor Swift che si è spesa con ardore per aiutare la sconfitta di Trump: non è andata così. Anzi, qualcuno ha sollevato l’obiezione: non sarà che questa levata di scudi dell’universo dorato del Puaa abbia fatto arrabbiare ancora di più l’elettorato Maga, quello che si sente dalla parte degli esclusi e dei dimenticati, contrariato da quella parata di stelle del cinema e della canzone che emanava così tanto aria privilegiata di establishment, un po’ come Hillary Clinton nel 2016. Ma un noto discografico non ha capito la lezione: “Bruce Springsteen e Taylor Swift non sono solo dei brillanti musicisti, ma anche modelli e fonte d’ispirazione per milioni di persone negli Stati Uniti e in tutto il mondo”. No, non è vero. Non è stato vero. Ma la performance impegnata dei nuovi leader d’opinione non conosce tregua.
Certo, il clamore è assicurato se di mezzo c’è un attore, un’attrice, registi, musicisti. Direttori d’orchestra, anche. Il paventato arrivo in Italia di un direttore d’orchestra putiniano come Valery Gergiev ha suscitato molte più proteste di quelle che si sono ascoltate per un ospedale pediatrico bombardato dai russi a Mariupol e per il massacro dei civili ucraini a Kyiv bersagliata dai droni di Putin. In Italia ogni sera stuoli di propagandisti putiniani occupano lo spazio dei talk-show e dell’informazione che dovrebbe essere seria, ma non succede niente. E invece nella “società dello spettacolo politico” l’ossessione per l’effetto propagandistico che il concerto di Caserta avrebbe avuto è stata più forte di ogni altra cosa: siamo tutti un po’ succubi del nuovo corso per cui la gente di spettacolo crea più consenso dei politici di professione. Ci vuole l’evento, il famoso del cinema, della musica, del teatro. E anche la cantante israeliana in gara per Eurovision (tra l’altro già sopravvissuta al massacro del 7 ottobre) non poteva essere tollerata perché profanava lo spazio sacro del palcoscenico: fischi a profusione, bandiere al vento, la diretta tv assicurata, il messaggio politico che arriva per vie oblique e traverse. E anche nel processo Open Arms che ha visto come imputato l’allora ministro dell’Interno Matteo Salvini ci voleva il grande attore internazionale per scuotere l’attenzione dell’opinione pubblica. E’ arrivato Richard Gere, che si era addirittura imbarcato sulla nave che aveva salvato i naufraghi, e il mondo dei social è impazzito, ha trovato un baricentro, ha smosso opinioni. Oramai funziona così.
E fa quasi un po’ tenerezza il trio Aldo, Giovanni e Giacomo (soprattutto Giovanni per la verità) che generosamente si ostina nella battaglia oramai vetusta per la difesa dell’Amazzonia, per la salvaguardia di quelle foreste, per lo spreco di legno e di carta che desertifica quel polmone del pianeta. Amazzonia, chi se la ricorda più? In attesa dell’Evento veneziano di settembre, chissà quante sorprese ci riserverà la fertile fantasia del Partito unico delle attrici e degli attori. Il Puaa si sta già attrezzando.