Il Giappone osa dire no ai premi letterari Akutagawa e Naoki, rifiutando romanzi non all’altezza. E se anche noi osassimo? Un gesto che sfida l’orgia di premi italiani, riscoprendo la lettura per piacere, non per classifica. Coraggio di tacere per far respirare la letteratura
Che bella, la pioggia giapponese. Che bella, la stanza in penombra, l’abat-jour accesa, l’uomo solitario che legge un romanzo mediocre. Non per scelta, ma per dovere. Perché è nella giuria del premio Akutagawa. E poi chiude il libro, sospira e dice: “No.”
No, quest’anno no. Non ci siamo.
In Giappone è successo davvero: i due principali premi letterari del paese, l’Akutagawa (per la letteratura alta) e il Naoki (per la narrativa popolare), non sono stati assegnati. Perché? Perché nessuno dei romanzi candidati era abbastanza bello. Non scandaloso. Non brutto. Semplicemente, non all’altezza.
Sembra un gesto normale. Ma in un mondo che ha abolito la bocciatura, che vive di segnalazioni, shortlist, menzioni, finalisti, premi minori, premi di consolazione, premi della critica, premi delle librerie, premi dei lettori, premi al miglior esordio, al miglior secondo romanzo, al miglior ritorno, al miglior libro che ci ha fatto piangere ma anche un po’ ridere… be’, dire che nessuno merita di vincere è un gesto epocale.
E allora una domanda si impone, da occidente sentimentale: e se lo facessimo anche noi? Se ogni tanto, almeno ogni tanto, decidessimo che non c’è nulla da premiare?
Immaginate la scena. Einaudi, Mondadori, Feltrinelli. Il gotha dell’editoria italiana. I cinque romanzi finalisti dello Strega in attesa. I candidati già invitati a convegni, talk show, fiere, panel dal titolo “come nasce un capolavoro”. E poi la giuria prende parola, con tono grave ma sereno: “Quest’anno abbiamo letto, discusso, valutato. Ma niente. La letteratura non ha risposto”.
Silenzio. Panico. Dirette Instagram interrotte. Gli uffici stampa svenuti. I librari che strappano le fascette gialle con su scritto “Candidato al Premio Strega 2025”. Le newsletter che non sanno più cosa consigliare.
Ma poi, d’improvviso, pace. Perché nell’anno in cui non vince nessuno, succede una cosa magnifica: si torna a leggere per scelta. Si smette di seguire le classifiche come se fossero oroscopi, si comincia a chiedersi se un libro ci ha fatto davvero battere il cuore o se abbiamo solo fatto finta per sentirci parte della conversazione. E magari si riscopre pure che la letteratura non serve a “piacere”, ma a scompigliare.
L’Italia dei premi, invece, è un’orgia di entusiasmo. Un carnevale di segnalazioni. Ogni scrittore ha vinto qualcosa. O è stato finalista. O è nella cinquina. O è “atteso protagonista della stagione editoriale”. Ci sono più premi che romanzi. E spesso più premi che idee.
Abbiamo il premio dedicato alla memoria di uno scrittore mai letto, quello sponsorizzato da una multinazionale di biscotti, quello dedicato alla narrativa che “dialoga con il territorio”, quello intitolato al padre del cognato di un grande intellettuale scomparso.
Tutti con lo stesso schema: una dozzina di libri che nessuno ha letto (tranne i loro editori), una giuria che ha già deciso il vincitore, e un vincitore che, a premio vinto, si sente finalmente autorizzato a dire che lui “non scrive per i premi”.
Eppure nessuno dice mai la verità: che a volte un anno va storto. Che a volte non c’è nessun libro davvero memorabile. Che nessun romanzo merita di essere incoronato come “il più importante”. Ma lo facciamo lo stesso. Perché premiare è comodo. Fa vendere copie, crea eventi, nutre ego, alimenta il grande algoritmo del consenso.
E allora sì, prendiamo esempio dal Giappone. Non perché sia più saggio, o più severo. Ma perché ha avuto il coraggio di ricordarci una cosa semplice: premiare è un atto di responsabilità, non una routine. Un premio letterario non è una festa della scuola. Non è un assegno promozionale. E’ un gesto critico, radicale, editoriale. Dovrebbe avere la forza di dire: questo sì, questo no. E se non c’è un sì, bisogna dirlo.
Ci vuole coraggio per dire che nessun libro è all’altezza. Ma ci vuole ancora più coraggio, forse, per dire che non è un dramma. Che la letteratura non muore se saltiamo un turno. Anzi: può darsi che, liberata dall’ansia del premio, possa tornare a respirare. E che il tempo guadagnato nella pausa possa essere usato per scrivere qualcosa che resti. Che non sia scritto solo per arrivare in finale, per piacere alla giuria, per finire nei 10 libri da portare in vacanza secondo un blog sponsorizzato da una banca.
Il Giappone ha fatto una cosa rara: ha avuto il coraggio di deludere. Noi, in Italia, siamo ancora schiavi dell’obbligo di accontentare. Ma se c’è un gesto davvero rivoluzionario che il mondo dei libri può fare, oggi, è proprio questo: prendersi una pausa. Tacere. Dire no. E magari, nel silenzio, tornare a leggere davvero.