Il regista di “The Brutalist” Brady Corbet e l’architetto Daniel Libeskind si incontrano. Un dialogo su cinema, avanguardie, democrazia, identità ebraica. E crisi dell’occidente. Quant’è potente l’arte che trascende l’ideologia
In occasione dell’uscita di The Brutalist, i distributori statunitensi hanno invitato Daniel Libeskind a una proiezione privata, convinti che Brady Corbet si fosse ispirato a lui nel tratteggiare il protagonista del film. L’architetto non si è riconosciuto affatto nel personaggio di László Tóth, ma è rimasto estremamente colpito dalla qualità dell’opera e dalla precisione con cui Corbet ha descritto il rapporto tra il protagonista e il miliardario che gli commissiona la costruzione di un monumentale centro culturale intestato alla memoria della madre, nel quale riecheggiano i conflitti tra artista e committente, e, ovviamente, regista e produttore. Sull’onda dell’entusiasmo Libeskind ha scritto un articolo su The Forward, nel quale ha definito il film “brillante e commovente” e ha esaltato il coraggio di un approccio epico con cui Corbet ha raccontato la vita americana di un architetto della Bauhaus sopravvissuto a Buchenwald. Il suo arrivo a New York è immortalato dall’immagine capovolta della statua della libertà: un presagio inquietante, che avverte Tóth che le opportunità offerte dal paese che lo ha accolto vanno di pari passo con ingiustizie, soprusi e solitudine. E’ un’immagine indimenticabile, che rivela come l’ambizione del film vada ben oltre il racconto di un architetto geniale e pieno di sé: Corbet ci racconta cosa rappresenti l’America per i milioni di immigrati che ne hanno fatto la grandezza, e quale sia il rapporto con lo stato di Israele per gli appartenenti al popolo ebraico. A sei mesi dall’uscita del film, Daniel Libeskind e Brady Corbet si sono incontrati per la prima volta in un evento organizzato dal Cinema in Piazza al Troisi di Roma, e hanno accettato di dialogare con il sottoscritto su tutti questi temi, a cominciare dall’idea di dedicare un film a un architetto brutalista.
BC: Non dobbiamo mai dimenticare che l’America è un paese di immigranti, e personalmente ho sempre riflettuto su cosa ognuno porti con sé dal proprio paese, come si cambia e cosa si diventa. Ho voluto immaginare l’itinerario esistenziale e artistico di una persona che costruisce edifici e immagina gli spazi nei quali si vive in un paese giovane e in via di formazione. Ho scritto il film otto anni fa, e il fatto che ci abbia messo tutto questo tempo per realizzarlo, rivela la difficoltà di convincere i finanziatori con una storia di questo tipo, nonostante avessi assicurato un nome come Adrien Brody. Credo che le perplessità, continuate sino a quando il film ha vinto tre Oscar, fossero dovute anche allo sguardo critico rispetto alla promessa americana. Sono pochissimi film dedicati agli architetti – mi viene in mente La fonte meravigliosa di King Vidor, ispirato a Frank Lloyd Wright- e ancora meno quelli che hanno avuto successo raccontando le ingiustizie e i soprusi di quello che semplicisticamente definiamo il sogno americano.
DL: Personalmente credo che il termine brutalista non sia riferito soltanto allo stile con il quale l’architetto realizza le sue opere, ma alla brutalità di un’epoca nella quale il mondo ha visto l’abominio dell’Olocausto e poi le bombe atomiche di Hiroshima e Nagasaki: mai come in questo periodo l’uomo ha rivelato la propria dimensione brutale. Secondo me, il film è grande per quello riesce a dire su un periodo tragico nel quale stava nascendo il mondo che sembra tramontare proprio in questi giorni.
Cosa intende?
DL: Da quando Donald Trump è alla Casa Bianca è entrata in crisi l’idea stessa di Occidente per come l’abbiamo concepita negli ultimi ottant’anni, così come l’opposizione culturale e ideologica nei confronti della Russia e della Cina. E’ un mondo completamente nuovo rispetto a quello in cui Winston Churchill parlava di “cortina di ferro,” o, più recentemente, quello in cui Ronald Reagan definiva l’Unione Sovietica “l’impero del male.” L’unica costante, tragica, è la violenza che accompagna allora come oggi ogni cambiamento: mentre parliamo sono in corso, due terribili conflitti oltre a numerosi altri focolai di brutalità che ci costringono a riflettere sulla natura umana.
Uno degli argomenti trattati dal film è la nascita dello stato di Israele.
BC: Ovviamente quando abbiamo scritto la sceneggiatura insieme a mia moglie Mona Fastvold non potevamo immaginare il 7 ottobre e tutto il dolore che ha scatenato. Io sono un prodotto tipico dell’America, dal momento che sono di madre cattolica, ma provengo da una mescolanza di diverse immigrazioni, una delle quali è quella ebraica ashkenazita. Questo mi porta inevitabilmente a riflettere sul tema dell’identità e su quale sia il ruolo e il significato dello stato di Israele. Ho immaginato un personaggio devoto unicamente alla propria architettura: per lui non c’è spazio per nient’altro, neanche per l’appartenenza al suo popolo e nemmeno per Dio. In questo è diverso da me e non è un caso se Tóth ha una moglie che si è convertita all’ebraismo e una nipote che invece sente profondamente l’appartenenza allo stato di Israele, al punto di decidere di andarci a vivere. E’ ispirato a Marcel Breuer, l’architetto della Bauhaus costretto a fuggire dalla Germania insieme a Walter Gropius. Per lui l’America ha rappresentato un’esperienza molto più felice del mio personaggio: si è affermato come architetto ed è diventato docente a Harvard.
DL: Una delle grandi ironie della storia è che in Israele, in particolare a Tel Aviv, ci sono più di 4000 edifici costruiti dagli architetti del Bauhaus. Un elemento che a mio avviso non viene analizzato a sufficienza è il rapporto dell’architettura con la tradizione e con il passato. Non ho la competenza necessaria per affermare lo stesso riguardo al cinema, ma credo che sia affascinante riflettere sulla relazione tra quello che realizzano gli artisti, qualunque sia la loro forma espressiva, con le teorie, che sono sempre legate al tempo.
Cosa ha tenuto a mente quando realizzato il museo ebraico di Berlino?
DL: La storia del mio popolo e l’orrore di quanto era avvenuto. L’idea abominevole della soluzione finale: il male assoluto perpetrato in un paese che aveva dato al mondo grandissima cultura e molti geni. Lo sgomento e un dolore incancellabile hanno travolto ogni possibile teoria.
Laszlo Tóth è anche il nome di colui che ha preso a martellate la Pietà di Michelangelo.
BC: Mi piacerebbe poter rispondere che si tratta di qualcosa di voluto, un ammiccamento motivato dal fatto che nel film c’è una lunga sequenza in Italia nella quale l’architetto si reca nelle cave di Carrara che fornivano il marmo a Michelangelo. Ma in realtà questa associazione poetica non è altro che una coincidenza del tutto casuale: sia il nome Laszlo che il cognome Tóth sono estremamente comuni in Ungheria.
DL: Non vi nascondo che fino a questo momento continuavo a ragionare sul perché fosse stato utilizzato il nome di una persona che ha tentato di distruggere un capolavoro, oltraggiando nello stesso tempo un’immagine religiosa…
Il co-protagonista del film è un miliardario chiamato Harrison Van Buren, il quale rivela molti elementi di assoluta ipocrisia e arriva persino a stuprare l’architetto. Sulla carta si tratta di un personaggio del tutto negativo, tuttavia è difficile avere un’idea univoca su di lui: ha anche qualcosa di forte, energetico e costruttivo.
BC: Anche lui è un personaggio di fantasia, e come ogni persona ha elementi contraddittori. Del resto anche Laszlo Tóth ha numerose fragilità, a cominciare dalla dipendenza dall’eroina. Certo, quello che commette Harrison Van Buren è imperdonabile, ma è grazie lui se l’architetto riesce a rinascere e ad affermarsi in America, e questa dinamica si è ripetuta nel caso di molti importanti produttori e imprenditori con lati oscuri. Da un punto di vista cinematografico, ho pensato ai personaggi ambigui interpretati da James Mason.
Vedendo il film mi è venuto in mente Noah Cross di “Chinatown”.
BC: Certo, anche lui: nel film di Roman Polanski, Noah Cross si macchia di omicidio, stupro e incesto, ma è anche dotato di intelligenza e quello che in America chiamiamo vision, la capacità di intuire il futuro e poi forgiarlo secondo questa stessa intuizione. In una delle scene più importanti del film risponde all’attonito protagonista di aver fatto uccidere una persona che ostacolava i suoi progetti per “il futuro.” E come sappiamo Noah Cross è ispirato a William Mulholland, uomo con molti lati oscuri, ma anche uno dei principali responsabili dello sviluppo di Los Angeles.
DL: C’è qualcosa di repellente in Van Buren, come anche in Noah Cross, ma oltre alla vision è difficile negarne il carisma. A mio modo di vedere simboleggia l’energia, la potenza e anche i lati oscuri dell’America: un modo di essere e di pensare con cui deve confrontarsi chiunque arriva in questo paese con l’intenzione di non vivere passivamente ma affermarsi e ottenere quello che sarebbe impossibile nel paese origine.
Come vi ponete di fronte a personalità dall’indubbio talento che si macchiano di crimini a volte orribili? Mi riferisco in particolare agli artisti.
DL: Solo per rimanere nel mio campo, Ludwig Mies van der Rohe, ultimo direttore della Bauhaus, ha fatto di tutto per avere un buon rapporto con i nazisti, e il motivo per cui è emigrato negli Stati Uniti è che, nonostante tutti i suoi sforzi, la sua architettura era detestata dal regime. Questo non lo rende meno grande come architetto, e potrei citare anche Le Corbusier, molto vicino al regime di Vichy. Forse il caso più clamoroso però è Philip Johnson, sincero ammiratore di Hitler, che arrivò a scrivere che il marrone bruciato utilizzato in alcuni suoi edifici era ispirato dal colore dei palazzi e le sinagoghe incendiate durante l’invasione della Polonia. Tutto ciò ovviamente è abominevole eppure anche lui rimane un grande architetto: bisogna separare sempre l’arte dall’artista.
BC: Condivido totalmente, e vorrei aggiungere il nome di Céline: Viaggio al termine della notte rimane un grandissimo capolavoro, nonostante abbia scritto in seguito orribili libelli antisemiti. E’ molto lunga la serie di artisti che in privato hanno avuto atteggiamenti inqualificabili a cominciare da Picasso: come dovremmo considerare le sofferenze che ha inflitto a molte donne? Inficiano forse la sua arte?
DL: Per non parlare di Wagner: l’arte, quando è veramente tale, trascende l’ideologia e aggira l’artista. La verità è che c’è una contraddizione che ci lascia sempre basiti tra il creatore e la sua creazione, e col tempo ho imparato che non è necessario essere un’umanista per realizzare delle opere umaniste.
Lei è stato un enfant prodige della musica e si è esibito alla Carnegie Hall quando aveva undici anni. C’è una relazione tra musica e architettura?
DL: Sì, certamente. Sono due forme di espressione nelle quali è determinante l’assoluta precisione, e in entrambi i casi è assente il messaggio, che le trasformerebbe in propaganda. Per quanto riguarda il rapporto tra arte e libertà, i dittatori tendono ad apprezzare gli architetti e a diffidare dei poeti. Ovviamente esistono menestrelli di corte e intellettuali al servizio del potere, ma l’architetto è colui che realizza concretamente la visione del dittatore: un chiaro esempio è Albert Speer, che ha lavorato al servizio del Führer interpretandone le farneticanti idee monumentali. Hitler se ne fidava al punto da nominarlo nel periodo finale del regime ministro degli armamenti. A mio avviso però si trattava di un architetto iso molto modesto.
In questi giorni stiamo vivendo un nuovo periodo di antisemitismo?
BC: Purtroppo sì, e il conflitto Medio Oriente, oltre a molti orrori perpetrati ultimamente dal governo israeliano, lo rendono particolarmente virulento e diffuso.
DL: L’antisemitismo è innato nell’anima umana e riaffiora sempre nei momenti di crisi, e oggi è in fiamme non solo il Medio Oriente, ma il mondo intero. Dopo il 7 ottobre mi ha molto colpito il quasi assoluto mutismo da parte delle istituzioni che difendono in ogni occasione la dignità delle donne. Eppure in quell’occasione sono stati commessi scempi indicibili e agghiaccianti. Con pochissime eccezioni l’atteggiamento generale è stato improntato al non credere che quell’orrore fosse accaduto o al massimo a minimizzarlo: questo per me è una grande forma di violento antisemitismo.
Nel film il protagonista ha sofferto sulla propria pelle l’orrore del nazismo e vive con crescente disillusione in rapporto con il capitalismo.
BC: Chiariamo immediatamente che non si può in nessun modo porre le due realtà sullo stesso piano. Detto questo, penso che il personaggio che ho immaginato non si troverebbe a proprio agio in nessun luogo perché il suo unico interesse è realizzare la propria architettura. L’amara disillusione che Laszlo Tóth vive in America nasce da una perenne insoddisfazione rispetto alla propria ambizione dalla complessità della democrazia, un bene da difendere ad ogni costo.
DL: Mi viene in mente la battuta di Churchill: “La democrazia e la peggior forma di governo, eccezion fatta per tutte le altre forme che sono state sperimentate nel corso della storia”. Con tutti i suoi limiti e le contraddizioni, l’America rimane nel solco democrazia perfino con un presidente come quello attuale, che ne sta deformando le fondamenta. Si tratta di un bene impagabile, e a volte sembra che se ne renda conto soltanto chi non l’ha mai conosciuta. In un periodo nel quale vediamo restringersi perfino l’idea di libertà, credo che il ruolo degli artisti sia proprio quello di difenderla attraverso le proprie opere, stando ben attenti a non cadere nella trappola del messaggio. Quando è autentica, l’arte riesce a comunicare concetti fondamentali anche se in apparenza racconta qualcosa di lontano o insignificante. La democrazia, così come la bellezza, si possono difendere ed esaltare anche attraverso una risata e perfino con un autoritratto. Pensando alle terribili difficoltà che stiamo vivendo in questi giorni, mi torna in mente proverbio yiddish che dice: “La verità non muore mai, ma vive come un mendicante”.