Le opinioni contano nei processi, ma sul caso Sofri quella di Violante è solo una spirale omertosa

La sua opinione sul caso Calabresi è stata secondo lui stesso avvalorata da una testimonianza a lui resa, che resta riservata nonostante la richiesta di chiarezza, per motivi di lealtà personale. Un intenibile paradosso

Luciano Violante ha fatto l’elogio della riservatezza, sollecitato da Sofri su Repubblica a svelare la “fonte non ostensibile” di cui aveva parlato all’epoca del processo per l’assassinio del commissario Calabresi, una fonte rimasta segreta ma capace di convincerlo della colpevolezza dell’imputato. La cosa è paradossale. Sofri lo aveva provocato con accenti fermi ma gentili e ironici: ora che si fa tardi, ora che siamo vecchi, ora che si appresta a insegnare la Costituzione in tv, nella trasmissione di Diaco, Violante faccia chiarezza su quella opaca testimonianza, rimasta anonima. Era un fatto, una circostanza verificabile? Era un’opinione, e di chi, di grazia? Le opinioni contano anche nei processi, tanto è vero che proprio nella Costituzione, all’articolo 111, è stato a un certo punto (nella riforma del 1999 e nella riforma dell’articolo 533 del codice di procedura penale, che è del 2006, anni dopo la conclusione del processo Calabresi) inserito un comma che limita il potere dirimente, nell’emettere sentenza, del “libero convincimento del giudice”, aggiungendo, sul modello della procedura penale anglosassone, che la decisione deve essere presa “al di là di ogni ragionevole dubbio”. Convincimenti delimitati dai fatti accertati con il massimo dell’incontrovertibilità, ecco.

Violante è intellettuale, politico e magistrato di formazione, inutile intrattenerlo e intrattenersi su questioni anche troppo sottili di procedura e sui loro risvolti. Sta di fatto che la sua opinione sul caso Calabresi è stata secondo lui stesso avvalorata da una testimonianza a lui resa, che resta riservata nonostante la richiesta di chiarezza, per motivi di lealtà personale.

A metà dei Novanta Violante guidò la Commissione parlamentare antimafia, escusse testimoni importanti, generò un clima politico e culturale in cui campeggiava la esigenza di chiarezza, di esposizione o ostensione di tutte le pieghe dell’attività criminale e delle circostanze processuali relative, e fu protagonista di celebri polemiche riguardanti il processo Andreotti, le accuse alla Democrazia cristiana e alle sue correnti e ai suoi ministri di collusione e di omertà, la nascita del partito di Berlusconi, e la sua relazione fu rilevante nel caratterizzare in questo senso un’intera epoca della storia della Repubblica, coincidente con l’avvio delle inchieste di Milano sulla corruzione, e definita dalle tecniche, arresti a grappolo, retate, detenzione preventiva, che tutte convergevano sulla denuncia di reati o sulla delazione e sulla gestione la più disinvolta del famoso segreto investigativo. L’idea in sé encomiabile di riservatezza rispetto alla conduzione di un’indagine o di un processo, rispetto all’onorabilità personale di chiunque, era giudicata, nel tempo della legislazione sui pentiti e delle grandi confessioni dei boss, come una variante dell’omertà mafiosa.

Questo dunque colpisce come un intenibile paradosso. Se io dicessi che qualcuno mi ha convinto del fatto che un tizio ha fatto qualcosa di male, di tremendo, come uccidere un poliziotto, e che questo qualcuno mi ha impegnato alla riservatezza sul suo nome e sulla sua responsabilità nella denuncia, mi procurerei l’accusa di diffamazione, quale che sia il destino giudiziario di questo cittadino e imputato in un processo. Questo è un fatto, non un’opinione. E un altro fatto, che proprio non si capisce e sul quale sarebbe inutile fare insinuazioni, quando invece esiste una richiesta accertata di chiarezza e di vera, autentica lealtà verso il destinatario dell’accusa, è che Violante sembra non intendere, non capire perché e da dove nasca questa sollecitazione a uscire da una spirale omertosa.

Di più su questi argomenti:

  • Giuliano Ferrara
    Fondatore
  • “Ferrara, Giuliano. Nato a Roma il 7 gennaio del ’52 da genitori iscritti al partito comunista dal ’42, partigiani combattenti senza orgogli luciferini né retoriche combattentistiche. Famiglia di tradizioni liberali per parte di padre, il nonno Mario era un noto avvocato e pubblicista (editorialista del Mondo di Mario Pannunzio e del Corriere della Sera) che difese gli antifascisti davanti al Tribunale Speciale per la sicurezza dello Stato.

Leave a comment

Your email address will not be published.