“Ho avuto paura di morire, ma ero serena perché ero sicura di aver già vissuto appieno”. Il racconto della capitana della Nazionale femminile e la sua lotta contro il tumore
Il tennis è gioia e dolore, allegria e tristezza, bellezza e bruttezza. Tutto in un gioco, un set, una partita. Il tennis è tutto e niente. Ma il tennis sa anche darti la forza di combattere e vincere partite che escono dal campo. Può aiutarti a vivere, a sconfiggere quello che Oriana Fallaci chiamava l’Alieno. È questa la storia di Tathiana Garbin, miglior tennista italiana e numero 22 al mondo alla fine degli anni Novanta e oggi capitana della Nazionale femminile che ha guidato prima alla finale e poi alla vittoria della Billie Jean King Cup. Ha voluto raccontare la sua storia, trasformando il suo diario in un libro dove ti sbatte in faccia la verità fin dal titolo: “Il mio match per la vita tra gioie e cicatrici”. Una cicatrice lunga 28 centimetri che non nasconde, anzi che racconta per aiutare gli altri. ”Era importante accettare la cicatrice, perché faceva parte anche quella del percorso.
La guardo e mi sento fiera di come siamo riusciti a passare insieme questo periodo”. Quando il suo corpo che aveva sempre vissuto come un tempio le ha mandato dei segnali strani nel settembre del 2023, ha capito che avrebbe dovuto affrontare un avversario sconosciuto. “Ho sfruttato la forza che avevo imparato grazie al mio sport, al tennis, che ti insegna a resistere ai colpi della vita, perché in un campo da tennis resisti magari ai colpi del tuo avversario, invece nella vita devi imparare a gestire anche queste situazioni che la vita ti mette di fronte. Credo di aver imparato proprio dal tennis che mi ha portato a essere più forte e resistente”. La battaglia per la vita come una partita: “Quando in campo sei vicina alla vittoria e tu guardi solo due punti più avanti, ti distrai… nella malattia è stato così: dovevo vivere giorno per giorno e sapere di dover avere la pazienza di sopportare quel momento con la fiducia che ce l’avrei fatta. E questa è una cosa che impari dal tennis”. Come quella di farsi una squadra che la accompagnasse insieme alla moglie, alla famiglia. “Come nel tennis quando devi costruirti la squadra con il tuo preparatore atletico, il tuo coach, insomma la tua squadra che ti aiuti a superare le difficoltà”.
Oltre ai medici che hanno preso cura del suo corpo, si è affidata a uno psicologo e a un dietologo. Ma anche con una squadra fortissima ha avuto dei momenti in cui la paura si è permessa di bussare alla sua porta: “Non l’ho voluta nascondere neppure nel libro. Per me era importante che emergesse anche la mia vulnerabilità. È giusto far vedere che anche chi ha un ruolo di leadership può avere dei momenti di sconforto, dei momenti in cui provi la sensazione di poter morire. Dall’altra parte però avevo una forza incredibile, tratta dalla consapevolezza di aver vissuto una vita piena come se avessi vissuto ottant’anni, anche se ne avevo solo 46. Sapevo che se non ce l’avessi fatta, cosa che può capitare perché a volte il tuo avversario è semplicemente più forte di te, me ne sarei andata con il sorriso perché ero sicura di aver vissuto appieno la mia vita, ed è la cosa più bella”. Tathiana si racconta per aiutare gli altri, per mandare un messaggio: “Il mio libro voleva essere una mano tesa verso tutte quelle persone che stanno soffrendo, per chi è malato e per chi è accanto a loro perché alla fine il tumore travolge anche la vita delle persone che ti stanno vicino”. Lei ha avuto sua moglie Ylenia con cui è abituata a riempire i giorni di parole. Avere di fianco lei, la famiglia, la squadra, il tennis che non ha mai abbandonato le ha dato la forza. Quella che aveva avuto anche quando aveva fatto outing: “Una volta era più difficile vivere il proprio orientamento sessuale, oggi forse non è più necessario neppure fare outing, ma dobbiamo continuare a lottare perché non è così dappertutto e dobbiamo ricordarci che ci sono paesi in cui cose che per noi sono normali, vengono perseguite”.
Tathiana può guardarsi indietro con orgoglio. Non ha rimpianti neppure per la sua vita in campo. È stata la prima italiana a battere una numero uno: “Mi piace paragonarmi a Bannister, all’uomo che infranse la barriera dei 4’ sul miglio. Dopo di lui sono arrivati altri a infrangere un limite che sembrava invalicabile”. Ricorda ancora i colpi con cui sconfisse Monica Seles a Indian Wells nel 2001 e Justin Henin nel 2004 al Roland Garros: “Monica era proprio un mio idolo da quando ero piccola. Ero molto nervosa prima di entrare in campo è stata un’esperienza bellissima perché battere un tuo idolo è qualcosa che ti rimane dentro”. Non ha rimpianti neppure per il doppio 6-0 con cui la Bartoli il 17 gennaio 2011 chiuse la sua carriera: “E’ stato un segno di rispetto, anch’io proverei sempre a vincere 6-0, 6-0”.
Da giocatrice ad allenatrice il passaggio è stato quasi scontato. Voleva restituire al tennis quello che aveva ricevuto: “Sentivo l’esigenza di dover trasferire tutto quello che avevo imparato agli altri: era come un po’ come chiudere il cerchio”. Quando poi la chiamarono per affidarle la nazionale femminile, il compito non era dei più semplici. Dopo anni di trionfi si ripartiva dalla serie C. “Avevamo da raccogliere l’eredità di Pennetta e Schiavone, un’eredità importante. Ma sapevo di avere delle ragazze giovani con un grande potenziale e avevo fiducia in loro”. La malattia, una prima operazione, la finale raggiunta e persa, l’abbraccio delle ragazze, una seconda operazione, un’altra finale. Questa volta vinta. “Il mio lavoro mi ha aiutato a non pensare sempre e solo alla malattia. Mi ha dato la forza”. Lucia Bronzetti, Elisabetta Cocciaretto, Jasmine Paolini, Martina Trevisan e Sara Errani sono le sue ragazze d’oro: “Sono molto orgogliosa di loro. Sono campionesse non solo in campo, ma anche fuori e per farlo devi avere dei valori molto importanti”.
L’effetto Sinner ha fatto bene anche a loro? ”Questi ragazzi sono talmente uniti e vicini che ognuno traina l’altro. È ovvio che adesso tutte le attenzioni siano sul numero 1 del mondo, ma devo dire che anche tutti gli altri, italiani e italiane, sono un esempio per i nostri giovani. È bello che quando si parla di tennis in generale, anche Sinner parla della Paolini piuttosto che Musetti delle nostre ragazze. E’ veramente importante che ci sia un rapporto così stretto tra loro”. Ma qual è il segreto di tanti successi? “Ci sono tanti fattori che determinano questi risultati, tanto che le altre federazioni ci chiedono il nostro segreto. Credo sia merito di un lavoro di squadra fatto da persone che amano questo sport e lavorano costantemente con i nostri atleti. Parlo dei team privati e del lavoro della Federazione partito vent’anni quando hanno dovuto ristrutturare tutto il sistema, lavorando sulla formazione dei tecnici e andando a cercare i migliori atleti nei posti più isolati d’Italia”. Chi cerca trova. Sembra semplice. Non lo è. “Io non credo nel talento, ma nella predisposizione, quella sì, perché devi avere inevitabilmente una predisposizione per il nostro sport. Poi, soprattutto nel femminile bisogna avere pazienza. Troppo spesso vogliamo trasformare i ragazzi in baby campioni. Dobbiamo avere la pazienza di coltivare i talenti e capirli”. Un messaggio per tanti genitori. Un messaggio da capitana. In campo e nella malattia.