Legalizzare la cannabis non è progresso ma resa: i dati parlano chiaro, e non serve un algoritmo per capirlo. Dove è stata liberalizzata, ha portato più disagio, dipendenze e criminalità. Non ripetiamo lo stesso errore
Ci sono cose per cui non serve un’intelligenza artificiale. Basta il buon senso. Basta guardarsi intorno. Basta ascoltare. Prendete la marijuana. Il dibattito sulla legalizzazione è vecchio quanto il secolo scorso, ma ogni volta sembra ripartire da capo: come se si trattasse di un diritto di civiltà, di una rivincita sociale, di un gesto progressista. In realtà, chi vuole legalizzarla oggi si assume una responsabilità enorme, perché lo fa non più nel buio del sospetto ma alla luce di un esperimento già compiuto. E fallito. Negli Stati Uniti, in Canada, in parte dell’Europa, la cannabis è già legale, regolata, tassata, venduta come un prodotto qualsiasi. Il risultato? Più dipendenza, più disagio mentale, più minori coinvolti, più mercato nero, più disagio urbano. Non lo dice un moralista. Lo dice chi guarda i numeri.
La marijuana legale non è diventata, come promettevano, un argine al crimine organizzato. E’ diventata un complemento. In California, in Oregon, in Colorado, il mercato nero è fiorente. E dove la marijuana è legale, è più facile vendere anche quella illegale: costa meno, è più potente, non rispetta alcuna regola. La criminalità, anziché regredire, si è adattata. E in alcuni casi – lo dice la DEA americana – ha prosperato. Non solo. La promessa di un uso responsabile e terapeutico si è sciolta davanti alla realtà di un business che vive sull’abuso. L’erba del 2025 non è quella degli anni Sessanta: è più potente, più raffinata, più pericolosa. E viene venduta con marketing aggressivo, spesso pensato proprio per i giovanissimi.
In Colorado, uno degli stati-pilota della legalizzazione, si è assistito a un’impennata di casi di psicosi legati al consumo, a un aumento significativo dell’uso tra i ragazzi e a un’esplosione del numero di senzatetto. A New York, la puzza è diventata parte del paesaggio urbano, e la convivenza civile ne ha risentito. A Vancouver, la vicinanza a un dispensario fa crollare il valore degli immobili. E’ questo il progresso?
Chi difende la legalizzazione, oggi, si rifugia spesso in una retorica libertaria o pseudo-sanitaria. Ma i fatti mostrano un’altra storia. Non c’è bisogno di un algoritmo per capirla. La verità è che la marijuana, più che liberalizzata, è stata banalizzata. E in nome di questa banalizzazione si è costruito un sistema economico che crea dipendenza per fare profitto. Siamo onesti: nessuno vuole criminalizzare i consumatori, né tornare alla “guerra alla droga” stile anni Ottanta. Ma un conto è non punire, un altro è promuovere. Un conto è tollerare, un altro è celebrare. La legalizzazione, così com’è stata concepita e praticata, è diventata un alibi per abdicare al dovere di porre limiti. E senza limiti, la libertà non è emancipazione. E’ abbandono.
Ci sono mille priorità nella politica sociale. Ma rendere normale ciò che normale non è – l’uso quotidiano di una sostanza che altera, che crea dipendenza, che ha effetti documentati sul cervello dei giovani – è una resa culturale prima ancora che sanitaria. E allora no, non serve un’intelligenza artificiale per capirlo. Basta quella naturale. Basta non voler chiudere gli occhi. Basta non confondere il futuro con l’ideologia. Basta chiamare le cose col loro nome: la marijuana legale è stato un errore. Non moltiplichiamolo.