Ridistribuzione interna e impoverimento dei paesi esteri per influenzarne le scelte di governo: ecco gli obiettivi dell’aggressiva politica commerciale del tycoon, a cui l’Ue è chiamata a rispondere aumentando l’efficienza. Nella speranza che lo shock possa risvegliarla
Il ritorno di Donald Trump alla presidenza degli Stati Uniti è uno shock per l’Europa. La sua politica estera si annuncia all’insegna della scarsa cooperazione con gli alleati storici, considerati piuttosto concorrenti da battere o subordinati da cui farsi ubbidire.
Lo strumento prescelto per ambedue i fini è una politica commerciale molto aggressiva. In due settimane appena, Trump ha imposto ingenti dazi sulle importazioni non solo dalla Cina ma anche, e con aliquote persino più elevate, da Canada e Messico. Ossia sui tre principali partner commerciali degli Usa insieme all’Unione europea, già additata come bersaglio seguente. Sono scelte foriere di perdite significative per l’economia globale, ma anche per quella statunitense, che patirà quantomeno un aumento dei prezzi al consumo. Lo predice la teoria economica e lo confermano gli studi empirici sui dazi imposti dal primo governo Trump. Le guerre commerciali non hanno quasi mai vincitori, bensì danneggiano tutti. Perché allora Trump sceglie di dar loro inizio? E come dovrebbe rispondere l’Europa?
Una motivazione è la redistribuzione interna. Pur generando perdite complessive, i dazi possono favorire particolari regioni o settori economici politicamente importanti per Trump. Queste considerazioni si prestano all’adozione di contromisure che vadano a colpire proprio quelle regioni e settori: reazione che tutti i governi (tra cui l’Ue) stanno studiando e che in un’ottica puramente commerciale dovrebbe essere utilmente dissuasiva.
Trump sembra però prefiggersi anche l’obiettivo strategico di impoverire i paesi esteri. Dichiaratamente, per influenzarne le scelte di governo, sinora in materia di immigrazione e narcotraffico. Forse anche per indebolire i rivali geopolitici. Non dunque i meri obiettivi economici di una classica guerra commerciale, bensì le ragioni che motivano sanzioni come quelle imposte alla Russia dall’Occidente. L’aggressivo unilateralismo di Trump si contrappone al liberalismo conservatore di predecessori come Ronald Reagan, che al contrario concluse l’accordo di libero scambio Usa-Canada.
L’Europa non può pensare di rispondergli occhio per occhio, in una spirale funesta come quella degli anni ’30. Ha invece bisogno di articolare una valida alternativa. Sul piano internazionale, occorre rinnovare l’impegno europeo per il multilateralismo, il consenso e il rispetto delle regole. E’ il momento migliore per ratificare il nostro accordo commerciale con il Canada (Ceta)e finalizzare quello con il Mercosur: due accordi che tanto maggiori benefici possono portare ai contraenti quanti più ostacoli incontreremo nel commercio con gli Usa. Più importante ancora è intervenire sui problemi strutturali interni che da decenni frenano la crescita dell’Europa e ne determinano il declino relativo a Usa e Cina, specie nelle tecnologie avanzate. La diagnosi non è nuova e non dipende dalla politica americana. La presentava mesi fa il rapporto Draghi. L’Ue ha bisogno di più innovazione, più investimenti, più imprenditoria.
La speranza è che lo shock rappresentato da Trump possa svegliare la politica europea dal suo torpore e indurre riforme che stimolino la crescita aumentando l’efficienza. Anzitutto il completamento del mercato unico, come indicato dal Rapporto Letta: mercati dei capitali, dell’energia, delle telecomunicazioni e dell’industria della difesa, particolarmente frammentati e di particolare rilevanza strategica. Oltre a mercati più integrati, perché investire in Europa sia più redditizio occorre una regolamentazione più semplice, efficace, uniforme e imparziale che promuova la concorrenza.
Il timore è che invece l’Europa riveli di meritare la scarsa stima che Trump ha per noi. Ossia che i paesi Ue siano troppo deboli e divisi per formulare una controproposta alle sue politiche, e ricadano semmai nell’imitarle. Infatti le barriere al completamento del mercato unico emergono anzitutto dal desiderio dei singoli governi di mantenere il controllo regolamentare (e a volte la proprietà) dei presunti campioni nazionali, esponendoli il meno possibile alla concorrenza.
Anziché promuovere una crescita duratura superando queste tendenze ataviche tra il dirigismo e il sovranismo, la Ue potrebbe essere tentata di aumentare gli investimenti in Europa ostacolando la fuoriuscita dei risparmi verso i mercati esteri, anzitutto statunitensi. Barriere del genere aiuterebbero nel breve termine il finanziamento di governi e imprese, a scapito dei risparmiatori. Non interverrebbero però alla radice del problema. Anzi, tenderebbero a ridurre efficienza e produttività dell’economia europea.
Rispondere al protezionismo daziario degli Usa con un protezionismo finanziario dell’Ue non sarebbe che un passo ulteriore nella spirale del declino. Tutt’al più coinvolgerebbe maggiormente nel declino europeo anche il resto del mondo: magra consolazione anche per chi mirasse all’indebolimento altrui, anziché alla prosperità comune.
Federico Boffa
Libera Università di Bolzano
Giacomo Ponzetto
CREI e Università Pompeu Fabra