La storia si ripete e sempre come tragedia. In quarant’anni, 7.747 terroristi per 147 ostaggi israeliani, civili e militari, vivi o morti. Il prezzo atroce che da mezzo secolo il paese ostaggio dell’odio deve pagare per continuare a esistere
In quarant’anni, 7.747 terroristi palestinesi per 147 ostaggi israeliani, civili e militari, vivi o morti. Questo è il bilancio del ricatto a cui è stato costretto Israele dal 1985 a oggi. A cui vanno aggiunti i 251 ostaggi rapiti il 7 ottobre da Hamas, dal Jihad islamico e da civili di Gaza non affiliati alle sigle del terrore a cui li hanno poi venduti. 113 ostaggi sono tornati in Israele al novembre 2023 (al termine della prima tregua); otto sono stati salvati vivi dall’esercito israeliano nel corso di operazioni speciali a Gaza. Dal 19 gennaio scorso è in corso la seconda tregua che prevede il rilascio, in un arco di 42 giorni, di 33 ostaggi in cambio di 1.904 terroristi palestinesi. Quanti moriranno domani per riavere oggi gli ostaggi?
Venerdì scorso, il direttore dello Shin Bet Ronen Bar ha presentato al gabinetto di sicurezza israeliano le statistiche che indicano che “l’82 per cento di coloro che sono stati rilasciati nell’accordo per Gilad Shalit nel 2011 sono tornati al terrorismo”. La storia non si ripete, si dice spesso. Ma nel caso di Israele, si ripete sempre. E sempre come tragedia, mai come farsa.
Il più infame dei terroristi rilasciati nel 2011, a cui avevano curato anche un cancro in carcere, è stato ovviamente il leader di Hamas, Yahya Sinwar, e decine di suoi uomini saliti alla guida del gruppo. L’ex leader militare di Hamas, Ahmed Jabari, si vantava che i prigionieri rilasciati in base a quell’accordo erano stati responsabili dell’uccisione di 569 israeliani. Sinwar avrebbe poi pianificato la morte di 1.200 israeliani.
Fra i 1.027 terroristi che nel 2011 Israele liberò per riavere il caporale Shalit, prigioniero di Hamas per cinque anni, c’erano Abed al Hadi Ganaim, che scaraventò un autobus da un dirupo uccidendo sedici persone; Walid Anajas, che uccise una dozzina di israeliani al Moment Caffè di Gerusalemme; Abd al Aziz Salaha, che fece a pezzi due riservisti israeliani che avevano preso la strada sbagliata a Ramallah (sue sono le mani sporche di sangue mostrate da una finestra e che sarebbero diventate uno dei simboli delle manifestazioni pro Gaza in occidente); Musab Hashlemon, sedici ergastoli per due attentati a Beersheba; Ibrahim Jundiya, dodici ergastoli per l’attacco alla stazione degli autobus a Gerusalemme; Fadi Muhammad al Jabaa, diciotto ergastoli per la strage in un autobus di Haifa; Husam Badran, che ha fatto strage di venti ragazzini russi al Dolphinarium di Tel Aviv e quattordici che pranzavano al ristorante Matza di Haifa. Israele “condonò” 924 ergastoli per riavere uno solo dei suoi.
La prima crepa nella posizione ufficiale israeliana del “non si tratta coi terroristi” apparve nel 1968, quando Israele accettò di scarcerare sedici terroristi in cambio di dodici ostaggi su un aereo El Al costretto ad atterrare ad Algeri. Nel 1969 Israele scarcerò settantuno terroristi in cambio di 113 ostaggi a bordo dell’aereo TWA diretto a Tel Aviv e dirottato a Damasco. Nel 1970, il guardiano notturno Shmuel Rosenwasser, rapito da Fatah nella cittadina israeliana di Metulla al confine con il Libano, venne rilasciato in cambio di Mahmoud Hijazi, un capo di Fatah. Ma i ricatti dei terroristi continuarono a crescere. Israele sarebbe arrivato a uno dei suoi per mille dei loro. Poi la tragedia olimpica di Monaco, con la dilettantesca operazione tedesca che finì con l’uccisione da parte di “Settembre nero” di tutti gli ostaggi israeliani.
Da allora, le vittime del terrorismo e i loro famigliari iniziarono a guardare impotenti mentre quelli che avevano inflitto loro morte e dolore venivano lasciati andare, spesso dopo pochi anni di carcere. I soldati israeliani che avevano rischiato la vita (e in tanti ce l’avrebbero lasciata) per arrestare quei terroristi vedevano tutte le loro fatiche gettate al vento. E il serbatoio di terroristi, desiderosi solo di ammazzare quanti più ebrei possibile, veniva regolarmente rifornito, spesso a un ritmo incredibile. Alla fine, nessun israeliano avrebbe più potuto sentirsi al sicuro. Che da quarant’anni lo stato ebraico, unico tra le nazioni, debba fare ogni volta un calcolo così tragico non è motivo di festa. E certamente non hanno diritto di gioire gli europei che dedicano le strade a Marwan Barghouti.
Il primo a comprendere quanto fosse fragile e sensibile l’opinione pubblica israeliana sulla questione degli ostaggi e dei dispersi fu Ahmed Jibril, il leader del Fronte popolare per la liberazione della Palestina. Nel 1978, Israele iniziò una campagna militare per cacciare i terroristi dal Libano meridionale, da dove stava lanciando attacchi mortali contro i civili israeliani della Galilea. Cinque soldati israeliani, Avraham Amram e altri quattro, furono catturati. Quando iniziarono le trattative per il rilascio dei soldati, gli israeliani speravano di mantenere qualsiasi scambio su uno di due parametri. Un israeliano per un terrorista. E se necessario, tutti i palestinesi catturati in una operazione con gli israeliani catturati nello stesso lasso di tempo. I terroristi, guidati da Jibril, rifiutarono lo schema. Alla fine, gli israeliani capitolarono, scambiando 76 prigionieri per Amram e gli altri. Jibril aveva imparato una lezione importante. In una intervista nel 2006 a Damasco, gli occhi di Jibril si illuminarono quando parlò dell’“operazione Kiryat Shmona”, dove i terroristi arrivati dal Libano erano entrati in un edificio residenziale e massacrato diciotto uomini, donne e bambini. Jibril fantasticava di “soldati iraniani che entrano a Gerusalemme”.
Il più grande successo di Jibril arrivò nel 1985, quando in cambio di tre soldati israeliani ottenne il rilascio di 1.150 prigionieri. Il gruppo comprendeva alcuni dei terroristi più infami detenuti da Israele, tra cui Ahmed Yassin, che di lì a poco avrebbe fondato Hamas, e Kozo Okamoto, un membro dell’Armata Rossa giapponese che partecipò al massacro di ventisei israeliani all’aeroporto di Lod nel 1972. Fu liberato anche Ziad Nakhaleh, l’attuale leader del Jihad islamico palestinese. Sulla scia della richiesta di Jibril, Israele tentò di fare pressione su di lui rapendo il figlio di sua sorella, Murad al Bushnak, che gli agenti israeliani avevano attirato a Beirut con la promessa di un weekend di sesso, droga e gioco d’azzardo. Israele fece a Jibril una semplice offerta, uno scambio rapido, senza che nessuno lo sapesse: Bushnak per i tre israeliani. Jibril aumentò il prezzo per includere anche il nipote. Due anni dopo lo scambio scoppiò la prima Intifada, in cui ebbero un ruolo chiave i terroristi rilasciati. Quasi duecento i civili israeliani uccisi.
Intanto, nell’estate del 1986, due ufficiali si incontrarono al quartier generale del Comando Nord e stilarono uno degli ordini più controversi nella storia delle Forze di difesa israeliane. Erano il colonnello Gabi Ashkenazi (poi capo di stato maggiore sceso in politica) e il colonnello Yaakov Amidror, futuro consigliere per la sicurezza di Benjamin Netanyahu. L’ordine diceva: “Durante un rapimento, la missione principale è salvare i nostri soldati dai rapitori anche a costo di ferire o uccidere i nostri soldati”. Scelsero un nome in codice: “Annibale”. Dal punto di vista dell’esercito, un soldato morto era meglio di un soldato prigioniero che costringe lo stato a liberare migliaia di prigionieri per ottenere la sua liberazione. Morti o vivi, nessun soldato resta indietro.
Benjamin Netanyahu intanto pubblicava un libro intitolato “Terrorismo. Come l’occidente può sconfiggerlo”, in cui sosteneva di non negoziare con i terroristi in nessuna circostanza. Scrisse: “Questa politica dice ai terroristi che non cederemo alle loro richieste. Insistiamo affinché liberiate gli ostaggi. Se non lo farete pacificamente, siamo pronti a usare la forza. Stiamo offrendo un semplice scambio: la vostra vita per la vita degli ostaggi. In altre parole, l’unico ‘accordo’ che siamo disposti a fare con voi è questo: se vi arrendete senza combattere, rimarrete vivi”. Ma anche Netanyahu, come il governo laburista del tempo, avrebbe firmato due dei più grandi scambi di terroristi della storia israeliana. Dopo l’accordo Jibril del 1985, il ministero della Difesa israeliano ha stabilito che 114 dei 238 che erano stati rilasciati erano subito tornati al terrorismo. Nel periodo 1993-1999, 6.912 terroristi sono stati liberati in seguito a vari accordi. Nel settembre 1997, Hadi Nasrallah, figlio del leader di Hezbollah Hassan Nasrallah, fu ucciso in uno scontro con le truppe israeliane. Gli israeliani speravano che, con il suo corpo nelle loro mani, i negoziati per la restituzione dei corpi dei soldati israeliani detenuti da Hezbollah avrebbero accelerato. Yaakov Perry, capo dello Shin Bet, il servizio di sicurezza interna di Israele, era responsabile del caso. “Eravamo ottimisti, pensavamo che ci saremmo avvicinati a una soluzione, ma Nasrallah era indifferente. Ha ordinato ai suoi uomini di non mettere il nome di suo figlio in cima alla lista e di trattarlo come tutti gli altri caduti. In seguito ho sentito che quando la bara di Hadi è arrivata in Libano, suo padre ha sollevato il coperchio, ha guardato il corpo del suo amato figlio e lo ha chiuso. Non un muscolo del suo viso si è mosso”. Il capo dell’intelligence tedesca dell’epoca, August Hanning, che mediava un accordo tra Israele e i terroristi, si sentì dire da Nasrallah che “gli israeliani hanno un atteggiamento molto insolito su questa questione”. Nasrallah lo sapeva e alzò la posta dell’orrore: “Abbiamo teste, mani, piedi, e un cadavere israeliano quasi completo della testa al bacino”.
Nel 2004 Israele ha liberato quattrocento terroristi palestinesi in cambio di Elhanan Tannenbaum, tenuto prigioniero da Hezbollah, e dei corpi di tre soldati rapiti sul monte Dov. Tra i terroristi rimessi in libertà figurava Mustafa Dirani, responsabile della cattura nel 1986 del pilota israeliano Ron Arad, scomparso in Iran. Dirani era stato catturato nel 1994 con un’audace operazione israeliana nel tentativo di ottenere la restituzione dell’aviatore. Dirani oggi vive da uomo libero in Libano, di Arad più nessuna traccia. L’ex capo del Mossad, Meir Dagan, avrebbe rivelato che uno di quelli rilasciati in quell’accordo, Luay Saadi, da solo sarebbe tornato a uccidere trenta israeliani. La prima guerra del Libano del 2006 scoppiò con il rapimento di due soldati israeliani: due anni dopo, Hezbollah riuscì a scambiare i loro corpi con i terroristi vivi. Migliaia di terroristi liberati tra il 1993 e il 1999 hanno preso parte alla seconda Intifada, durante la quale mille israeliani sono stati assassinati. Abbas Muhammad Alsayd, rilasciato nel 1996, è stato coinvolto nell’attentato del 2002 a un seder pasquale a Netanyahu, dove morirono numerosi sopravvissuti alla Shoah. Nel 1998, Iyad Sawalha è stato rilasciato come gesto di “buona volontà”: quattro anni dopo ha fatto esplodere una bomba che ha ucciso diciassette persone. Sette mesi dopo il rilascio, Ramez Sali Abu Salmin si è fatto esplodere in un bar di Gerusalemme, uccidendo sette persone. Abdullah Abd Al Kadr Kawasme fu arrestato in seguito all’omicidio del poliziotto israeliano Nissim Toledano ed esiliato. Tornò a fare quello per cui era diventato famoso, tra cui l’infiltrazione nella comunità di Adura il 27 aprile 2002, dove furono uccise quattro persone, tra cui la bambina di cinque anni Danielle Shefi. Kawasme fu responsabile di due attentati suicidi a Gerusalemme nel maggio 2003, in cui furono uccise sei persone, e nel giugno 2003 in cui furono uccise 17 persone.
Nel 2006 il rapimento di Gilad Shalit. E chi continuava a parlare di “occupazione”, si era forse dimenticato che Shalit era l’unico ebreo rimasto nella Striscia di Gaza. La famiglia del caporale iniziò a fare pressioni sul governo per un accordo per liberare il figlio. Non avrebbero permesso che Gilad fosse un altro Nachshon Wachsman, il soldato rimasto ucciso in un tentativo di salvataggio. Wachsman era figlio di Esther, nata in un campo della Croce Rossa da genitori sopravvissuti alla “soluzione finale” in cui le loro famiglie erano state cancellate. Il figlio fu rapito dai terroristi e mostrato in video da Hamas. Il rabbinato d’Israele chiese al popolo ebraico di leggere ogni giorno tre Salmi. Vecchi e bambini, uomini e donne, chassidim in nero e laici con le kippà, si radunarono al Muro occidentale per intercedere per Wachsman. Le Brigate al Qassam, ala militare di Hamas, diffusero un filmato in animazione grafica in cui si vede Shalit tornare a casa in una bara. Nel cartone animato, intitolato “Il sentimento nella società sionista su Shalit”, si vede il padre Noam, invecchiato e col bastone, che vaga sconsolato per la strade d’Israele stringendo una foto del figlio ancora ostaggio. Poi l’anziano padre che siede in attesa al valico di Erez fra la Striscia di Gaza e Israele finché non gli viene consegnata una bara coperta dalla bandiera israeliana.
Al tempo dell’affare Shalit non si conoscevano ancora i nomi, i volti e le famiglie di coloro che sarebbero stati uccisi da alcuni dei 1.027 terroristi islamici rilasciati in cambio di Shalit. E poi arrivò il 7 ottobre 2023. Ora conosciamo i nomi, i volti e le famiglie degli uccisi e degli ostaggi rapiti in un’operazione pianificata dai terroristi rilasciati per Shalit. Quelli che non conosciamo ancora sono i nomi, i volti e le famiglie di coloro che saranno uccisi nel prossimo grande massacro organizzato da chi in questi giorni è stato rilasciato. Non è questione di se, ma quando.
Intanto, di Ariel e Kfir Bibas ancora nessuna traccia, mentre il padre esce oggi da Gaza. L’ultima immagine che si ha di loro è avvolti nella coperta della madre, portata via da Hamas tra le urla e i pianti. Kfir, che avrebbe compiuto due anni a gennaio, è l’unica persona al mondo ad aver trascorso più tempo della sua brevissima vita ostaggio di un gruppo terroristico che a casa con i suoi. Ora per loro si teme il peggio. E non sarà un cartone animato.