L’emendamento leghista al dl Cultura non sarebbe servito a vendere il Colosseo, sono balle dell’opposizione. Ma è servito al Pd per un’altra bottarella contro il “Salva-Milano”. In verità, l’idea era di liberare i comuni da qualche lacciulo dei cultori “delle pietre immobili”. Come quando la sovrintendenza a provò a vincolare un intero quartiere di Milano. Autogol
Con l’esattezza del teorema di Pitagora, Salvini riesce ad avere torto anche nel fortuito caso in cui abbia ragione. L’emendamento al dl Cultura del suo deputato Bof è già stato ritirato, e questo basta a spiegare la poca logica politica di averlo presentato. Il testo non prevedeva l’abolizione delle soprintendenze, né di togliere ai sacri tecnocrati del Mic l’autorità sui grandi monumenti o le opere storiche, e questo lo capirebbe persino un senatore del Pd, di quelli impegnati a demolire il “Salva-Milano” con l’unico intento di abbattere Beppe Sala. Invece lo hanno detto tutti, a sinistra, perché contrariamente a quanto dice Franceschini, contro Milano si marcia uniti. Con la Lega nel ruolo di utile idiota in una battaglia interna del Pd, più che contro il governo.
Contro il defunto emendamento Bof (ma la Lega annuncia che verrà ripresentato in un “ddl più ampio”, la più classica delle pietre tombali) abbiamo ascoltato il consueto concerto di trombonate, dal Fai, “è il segno evidente di una mancanza più generale di cultura”, al Pd: “L’emendamento della Lega rischia di tradursi in una deregulation dannosa”. Così, in termini assoluti. In realtà nessuno intendeva vendere il Colosseo, ma solo affidare ai comuni una serie di decisioni urbanistiche e paesaggistiche rendendo il parere delle soprintendenze non più “vincolante”, intervenendo su 7 procedure previste dal Codice dei beni culturali e del paesaggio varato nel 2004 (Codice Urbani). Qualche esempio: interventi da eseguirsi nell’ambito dei beni paesaggistici; distanze o varianti per aperture di strade e cave, posa di condotte per impianti industriali e civili e altro; posa in opera di cartelli pubblicitari in prossimità di immobili e aree di valore paesaggistico; tinteggiatura di fabbricati in aree tutelate o interventi di manutenzione ordinaria, straordinaria, di consolidamento statico e di restauro conservativo che non alterino lo stato dei luoghi e l’aspetto esteriore degli edifici in centri storici. Che tutte queste dettagliatissime procedure debbano dipendere da un organismo fornito della pletorica targhetta di Soprintendenza Archeologia Belle Arti e Paesaggio, può evidentemente non essere obbligatorio né necessario. i codici si possono anche modificare, quando serva. Il ministro della Cultura Giuli, appassionato conoscitore di archeologia e di beni culturali, ha lasciato intendere di pensarla come la tecnostruttura del suo ministero, e ci mancherebbe, respingendo subito l’ipotesi leghista. Ma il Mic è anche una macchina autoconservativa, spesso arroccata, non sempre lungimirante. Non è un caso che Repubblica, nel consueto articolo “arrivano i mostri”, abbia tirato fuori dal baule i nomi di Salvatore Settis, capofila dieci anni fa delle resistenza contro la riforma delle soprintendenze di epoca Renzi, e addirittura di Gino Famiglietti (“l’inflessibile Famiglietti”, secondo il Giornale dell’Arte, “il signor no, vero uomo forte del ministero” secondo Repubblica), ora pensionato, che della setta immobilista di Settis fu a lungo una sorta di braccio operativo al Collegio Romano. Le soprintendenze hanno evidentemente il loro enorme valore, tanto più in un paese in cui non c’è un metro quadro che non sia antropizzato. Ma un potere senza contraddittorio, da burocrazia borbonica, per il quale un funzionario possa decidere anche delle varianti stradali, è un criterio rivedibile. Dopo il tentativo di riforma di Renzi-Franceschini, arrivò al Collegio Romano il grottesco ministro grillino Bonisoli. Che, ad esempio, riuscì a porre, attraverso la direzione generale Archeologia Belle arti e Paesaggio del ministero, un vincolo di “interesse culturale particolarmente importante” su un intero quartiere di Milano, il QT8, praticamente impedendo persino la manutenzione ordinaria senza specifica autorizzazione. Era l’epoca di Famiglietti direttore generale dell’Archeologia, Belle Arti e Paesaggio, e la soprintendenza di Milano tentò di vincolare persino una necessaria sistemazione del Giardino dei Giusti, un’area all’aperto e senza secolare storia alle spalle. Il ministero “delle pietre immobili” arrivò anche a revocare l’autorizzazione paesaggistica (stavolta concessa dalla soprintendenza di Napoli) per i lavori della metropolitana di piazza Plebiscito. Giusto per dimostrare che a volte è meglio lasciar fare che tentare di imporre, appellandosi alle soprintendenze, vincoli d’ogni tipo. Hanno provato, di recente, a chiedere il vincolo paesaggistico anche su una landa d’asfalto, pur di bloccare il nuovo stadio Meazza. E a lungo gli ambientalisti tentarono di bloccare la Pedemontana lombarda chiedendo opinabili vincoli paesaggistici. L’emendamento proposto e autoaffossato dalla Lega non avrebbe venduto piazza di Spagna, avrebbe forse aiutato a impedire queste follie.