Schizzi, disegnini, pagine di quaderno ordinate o pasticciate. La Fondazione Prada espone una bellissima collezione di storyboard. Tutti diversi e unici, a seconda dello stile del regista (o dell’illustratore)
Alfred Hitchcock disegnava minuziosamente gli storyboard dei suoi film. Per praticità e per dispetto. Praticità, perché – lo ha dichiarato più volte – “sono così precisi e dettagliati che chiunque potrebbe andare sul set al posto mio”. Dispetto, perché voleva essere sicuro che nessuno potesse montare i suoi film in maniera diversa da quella che lui aveva in mente. Quindi girava solo gli spezzoni di pellicola necessari al progetto. Nessuna copertura. Nessuna variante.
Nessun altro avrebbe potuto metterci le mani. Soltanto Saul Bass, più noto per i suoi magnifici titoli di testa, che disegnò lo storyboard per la scena della doccia in “Psycho”: 72 posizioni di macchina per 45 secondi di girato. Poi la filmò con la controfigura di Janet Leigh, la montò e la mostrò a Hitchcock – “che stava seduto nella sua sedia sopraelevata da regista in modalità da Buddha, mani incrociate in grembo”. Da lassù, il regista fece un cenno di approvazione. La sequenza fu girata e montata seguendo i disegni di Saul Bass (suo anche lo storyboard per il prologo di “West Side Story”, registi Robert Wise e Jerome Robbins, anno 1961: lavoro complicato per via delle coreografie).
La leggenda è un tantino esagerata. Hitchcock (con o senza Saul Bass) era l’unico a disegnare storyboard. La premiata ditta fondata da Walt Disney ne sentì presto la necessità. La mattina serviva per inventare le scenette, nel pomeriggio la sequenza veniva schizzata su carta, i fogli erano sparsi ovunque. Appenderli al muro era l’unico modo per non perdere il filo.
“Una specie di linguaggio. Storyboard e altre rappresentazioni visive per il cinema”. Con questo titolo la Fondazione Prada espone – nell’Osservatorio in Galleria Vittorio Emanuele, che da solo vale una visita – una bellissima collezione di storyboard curata da Melissa Harris (la mostra si apre oggi e chiuderà l’8 settembre). Ogni regista ha il suo modo di lavorare, e anche gli storyboard sono diversissimi. Schizzi a matita, disegnini, pagine di quaderno ordinate, pagine di quaderno pasticciate, semplici fogli di varie dimensioni, le schedine numerate con una scena dettagliata di “Alla ricerca di Nemo”, disegnata e colorata a mano.
Ma come, non fanno tutto al computer? Mica tutto, all’inizio c’è l’uomo che inventa, e poi disegna. Il regista medesimo, o illustratori specializzati, ognuno con il suo stile. “Il ragazzo e l’airone” di Hayao Miyazaki è disegnato dal regista che in ideogrammi minuscoli aggiunge istruzioni per i dialoghi e gli effetti sonori. All’estremo opposto, lo storyboard disegnato a carboncino per “Il Grande Dittatore” di Chaplin da J. Russell Spencer, nel 1940. Il sosia Adenoid Hynkel avanza verso lo scalone, anche la statua fa il saluto a braccio teso (no, fratellini e sorelline d’Italia, non fatevi venire idee di arredamento).
I lavori diciamo così “industriali”, quando un personaggio da animare viene ripreso da vari registi, hanno regole rigide e misure da prendersi con il righello. Braccio di Ferro, nel 1940, doveva avere le stesse proporzioni da un cortometraggio all’altro. Lo stesso valeva per Betty Boop, gambe tornite, abitino corto, riccioli, occhioni e bocca. Lois Lane, compagna di Superman, ha una gamma di espressioni pre-disegnate, per fedeltà al personaggio e facilità di lavorazione. Wes Anderson per “Grand Budapest Hotel” ha uno storyboard animato, da vedere su iPad: oltre al regista, ci hanno lavorato Jay Clarke per le immagini e Edward Bursch per l’animazione. Luis Buñuel per “Un chien andalou” – l’occhio tagliato dalla lametta vi ricorda qualcosa? – ha una sceneggiatura con disegni a margine di Salvador Dalí.