Da Li Gotti a La Russa. Le colpe dei difesi non cadono sui difensori. L’altra civiltà della barbarie
L’avvocato di un mafioso è anch’egli mafioso? E quello di uno spacciatore allora cos’è? E che si sarebbe dovuto dire di Otto Stahmer, il principe del foro, il grande avvocato che nell’autunno del 1945, a Norimberga, difese della gente che aveva sterminato sei milioni di persone nelle camere a gas? Non conosciamo Luigi Li Gotti, l’avvocato che ha presentato l’ormai famoso esposto utilizzato dalla procura della Repubblica di Roma per indagare di “peculato” e “favoreggiamento” il presidente del Consiglio, due ministri e un sottosegretario. Un suo profilo, il lettore lo troverà qui, lo firma Adriano Sofri: “Solo chi lo ha visto da vicino può capire cosa significa fare i conti con lui, ebbe il coraggio di dire che Rostagno fu assassinato dalla mafia di Lotta Continua”. Un’idea dunque ce la siamo fatta. Non bellissima.
Eppure c’era da restare interdetti, martedì sera, nell’ascoltare Giorgia Meloni che, per connotare negativamente questo signore, lo presentava come l’avvocato di “Buscetta, Brusca e altri mafiosi”. Era meglio limitarsi a citare Romano Prodi (di cui fu sottosegretario), perché quest’uomo potrà anche essere un’anima nera, ma l’aver difeso dei mafiosi non rende mafioso nessun avvocato come invece ha detto – incredibile ma vero – il presidente del Senato Ignazio La Russa. Che è un avvocato!
Se disgraziatamente il ministro Daniela Santanchè tra qualche anno dovesse essere condannata per falso in bilancio dal tribunale di Milano dov’è a processo, potremmo forse quel giorno dire che Ignazio La Russa, il cui studio legale la difende, sia anch’egli colpevole dello stesso reato della sua alleata e amica? Certamente no. E non vale nemmeno la pena di ricordare che il diritto alla difesa, per chiunque, anche per i mostri come Donato Bilancia o Pietro Pacciani, così come l’esistenza stessa di un processo in cui l’avvocato esercita liberamente la sua funzione, è ciò che distingue i tribunali italiani dai processi lapidari dell’Iran komeinista. La civiltà dalla barbarie.
Dunque sorprende, e forse allarma, avere letto ieri sulla Stampa queste parole: “La Stampa non può fare a meno di sentire quello che il presidente del Senato dice mentre si avvia a passo svelto verso l’uscita di Palazzo Madama: ‘Un avvocato può difendere chi vuole. Certo, gli avvocati che difendono i mafiosi sono spesso mafiosi’. Dopo una richiesta di chiarimento, La Russa, più tardi, precisa: ‘Era una battuta, ma è vero – ribadisce – che c’è stata una stretta, e ripeto stretta, minoranza di avvocati che difendevano mafiosi e che sono stati accusati di essere troppo contigui ai loro clienti”. Questa scena ha avuto luogo martedì sera, poco dopo che la presidente del Consiglio aveva diffuso il video in cui parlava dell’avvocato di “Brusca, Buscetta e altri mafiosi”.
Quello di Meloni è stato forse un isolato spasmo lessicale, dovuto alla stizza di aver subìto un attacco politico per via giudiziaria, tuttavia è proprio su questi spasmi, forse impulsivi, che si rischia la dissipazione della bella immagine di una donna di destra composta e rispettata nel mondo. È infine assai significativo che ieri sera sia arrivata una nota delle Camere penali, cioè degli avvocati. Ma questa nota non censurava l’equazione avvocato di mafioso uguale mafioso. Su quella gli avvocati hanno glissato. Bensì polemizzava con l’Anm intorno alla questione dell’avviso di garanzia ricevuto dalla premier. Come i magistrati sono impegnati in una guerra per fermare la riforma che separa le carriere (al punto di mandare avvisi di garanzia?), così gli avvocati sono talmente impegnati nel sostenerla che non vedono a un palmo di naso. Si parla di princìpi, di dispositivi, della storia del libico Almasri e si aprono indagini ipotizzando che il governo ne abbia addirittura favorito la fuga. Ma la vera materia del contendere è la riforma. E assorbe tutto. Al punto che i difensori ieri hanno dimenticato di difendere il diritto alla difesa.