Disinformazione, guerra ibrida, ignavia politica. I sistemi ostili hanno imparato a sfruttare i nostri svantaggi. Ecco come uscire dalla trappola dei nemici del nostro sistema
Nell’interrogarsi sul futuro delle relazioni transatlantiche, la prima distinzione da fare riguarda la prospettiva: chi siamo “noi”, se l’Italia, l’Europa o l’occidente. Per quanto riguarda la prospettiva italiana, sembra esserci un certo consenso: nelle relazioni con Trump, partiamo da una posizione privilegiata. Il governo di Giorgia Meloni ha oggi un capitale politico e tutti si chiedono come sarà speso. L’ipotesi più discussa è che cerchi di porsi come mediatore, un ponte fra Stati Uniti ed Europa. Ma non è chiarissimo con quale direzione. Non è affatto evidente che sia nel Dna politico e ideologico di questo governo usare questo capitale per difendere l’Europa dall’ira funesta di Trump sulla bilancia commerciale. Si può, al più, ipotizzare che la premier si spenda in questo senso se calcola che ciò rafforzi l’Italia a Bruxelles su dossier cruciali, primo fra tutti l’immigrazione. E’ altrettanto difficile immaginare che il governo diventi un alfiere dell’agenda Trump in Europa su temi come l’aumento della spesa militare al 2, 3 o 5 per cento, sia per ragioni strutturali legate allo stato dell’economia, sia per altre legate alla sua constituency domestica.
In ogni caso, nessuna relazione bilaterale è durevole se si basa esclusivamente sull’affinità ideologica, specie con una controparte transattiva come Trump. Bisogna quindi riuscire a definire il ruolo strategico dell’Italia nel nuovo equilibrio transatlantico.
Cosa possiamo offrire agli Stati Uniti? Possiamo davvero essere un mediatore con Bruxelles? Oppure, possiamo essere un partner strategico nel Mediterraneo e in Nord Africa e alleviare l’America dal fardello strategico di questo quadrante? C’è poi una seconda domanda altrettanto importante: quanto l’Amministrazione Trump sarà disposta a investire nel rapporto con l’Ue? Quanto, un presidente con il pallino del deal-making sarà disposto a ingaggiare un’entità che ha 27 anime, una volontà politica molto evanescente e pochissimo potere per realizzarla?
Nel quadro generale, tuttavia, le democrazie liberali si trovano davanti a tre sfide esistenziali che rischiano di decretarne la fine più rapidamente di quello che pensiamo.
Il primo problema è che i nostri avversari strategici hanno capito come attaccarci sfruttando i vantaggi dei loro sistemi politici e gli svantaggi dei nostri. Hanno capito che le società libere hanno una superficie di attacco sterminata. Che la libertà di espressione rende la disinformazione più efficace, che la libertà politica ci apre alle interferenze elettorali, che l’economia di mercato ci rende vulnerabili alla coercizione economica.
Hanno poi capito che, in questa èra tecnologica, le nostre opinioni pubbliche sono facili da influenzare sul piano dell’informazione e da indebolire sul piano cognitivo. Considerato che il pubblico genera le nostre decisioni politiche, uno sforzo per impoverirne il pensiero ha, grazie alla Rete e all’AI, un rapporto costi-benefici enormemente favorevole ed è destinato a trasformarsi in un vantaggio strategico nel lungo periodo.
Infine, i nostri competitor hanno capito che la gradualità deve essere un cardine di questa erosione perché da sempre, ma soprattutto nell’èra dello scrolling, i sistemi democratici sono intrinsecamente deboli contro le minacce graduali. Mentre i nostri sguardi sono incollati al monitor quello dei nostri governi è fisso sull’orizzonte elettorale, ed è ormai impossibile spendere capitale politico su minacce sì letali, ma più simili a una marea che sale lentamente che a un incendio che divampa davanti ai nostri occhi.
Il secondo problema è che in occidente è necessario un profondo ripensamento dei rapporti fra pubblico e privato. Il segretario di stato americano entrante, Marco Rubio, la scorsa settimana ha dichiarato che “presto vivremo in un mondo in cui molte delle cose che ci interessano quotidianamente dipenderanno dal fatto che la Cina ci permetta di averle o meno”. Rubio faceva riferimento a una tendenza in particolare: secondo l’Hamilton Index, un indice che misura la performance delle economie nei settori strategici per l’interesse nazionale, dal 1995 la quota globale cinese della produzione industriale avanzata è cresciuta dal 3 al 25 per cento, mentre per i paesi Ocse questa è scesa dall’85 al 58 per cento. La Cina domina 7 su 10 dei settori strategici dell’Hamilton, raggiungendo un tasso di specializzazione in questi settori superiore del 70 per cento rispetto a quello degli Stati Uniti. I numeri dicono in sostanza che la Cina è stata più brava rispetto a noi a orientare la propria economia verso settori allineati agli interessi nazionali. Questi dati devono innescare una riflessione urgente. Nelle autocrazie il rapporto pubblico-privato è risolto con un’esplicita primazia del primo sul secondo, una soluzione incompatibile con l’economia di mercato delle società libere. A fronte di questo punto di forza sistemico, la nostra arma vincente è sempre stata la concorrenza e l’innovazione, un vantaggio che ormai sembra sfumato, specialmente in Europa. Secondo una recente statistica della Commissione europea, fra le 2.500 imprese al mondo che spendono di più in ricerca e sviluppo quelle europee, dal 2013 a oggi, si sono dimezzate. Fra i sospetti colpevoli c’è la burocrazia. Nel periodo fra il 2019 e il 2024, l’Ue ha prodotto 13.492 atti legislativi, a fronte di 3.725 in America.
Ancora più a monte, il declino dell’educazione e della capacità delle nostre opinioni pubbliche di orientare i governi con la testa invece che con la pancia gioca un ruolo chiave. Valga da esempio la traiettoria della transizione verde in Europa, il cui ritmo è stato forzato da un approccio fideistico, e le sue conseguenze catastrofiche sul settore dell’automotive.
Ancora: l’ingresso di Elon Musk sulla scena politica americana riassume i dilemmi sollevati dal ruolo delle Big tech. Abbiamo improvvisamente un attore privato che esprime allo stesso tempo un potere tecnico ed economico enorme in settori strategici come lo spazio e la comunicazione, fino a qualche anno fa appannaggio esclusivo dello stato, e un potere politico altrettanto forte sia all’interno sia verso l’estero. Le controparti degli Stati Uniti saranno tentate di acquisire la benevolenza dell’Amministrazione Trump facendo affari con Musk, dinamica che potrebbe rivelarsi molto importante nella politica estera dei prossimi anni. Anche all’interno, la distinzione fra interessi muskiani e americani diventerà sempre meno chiara, ponendo una serie di problemi molto difficili da prevedere.
Il terzo problema riguarda la prospettiva europea ed è il nostro rapporto con l’hard power. Una buona parte dell’opinione pubblica europea continua a pensare che parlare di guerra, o di armarsi o di combattere significhi amare la violenza e odiare la pace. Nonostante il ritorno della guerra sul suolo europeo continua a esistere in Europa una resistenza, una negazione quasi “psicopolitica” rispetto alla necessità di difendersi, storicamente comprensibile ma molto pericolosa.
Già nel corso della precedente Amministrazione Trump le avvisaglie erano chiare. Gli Stati Uniti non sono più disposti ad assumersi l’onere della Difesa europea e si interrogano su cosa sia per loro l’Europa, se ancora un fine o un mezzo, o persino un fardello. Per arrivare a qualcosa che somigli a un assetto di Difesa comune dovremo affrontare temi molto spinosi tecnicamente e politicamente come l’interoperabilità, la catena di comando, persino la postura nucleare.
Per “noi Ue” questo è un bivio fra la maturazione verso qualcosa di più vicino a un’entità politica propriamente detta e la disgregazione definitiva verso la fine del progetto europeo. Senza il quale, anche il “noi Italia” e gli altri paesi europei non hanno molte chance di sopravvivere come li conosciamo oggi.
Il rinnovamento dei rapporti transatlantici dovrebbe basarsi su una presa di coscienza congiunta di questi fenomeni, che li metta in cima alle priorità, sviluppi un lessico comune per parlarne e allochi le risorse necessarie a educare l’opinione pubblica. Alcuni segnali inducono all’ottimismo. Nel 2024 le minacce ibride sono entrate a far parte del dibattito mainstream. Organismi sovranazionali come Nato e Ue hanno cominciato a parlare apertamente delle campagne di destabilizzazione condotte da Russia e Cina. Da ultimo, la scorsa settimana, il commissario europeo per la Difesa e lo spazio Andrius Kubilius ha detto che “la Russia sta conducendo una guerra di nuova generazione contro di noi, siamo già sotto attacco”.
Se non riusciamo a vincere queste sfide, invece, le democrazie liberali saranno sostituite da qualcos’altro. Non sappiamo esattamente cosa, ma i dati economici e demografici suggeriscono una direzione verso sistemi che non metterebbero al centro la libertà ma altri valori, o forse nessun valore. In questo caso, nei libri di storia i primi due decenni del Ventunesimo secolo saranno forse visti come un’appendice dell’epoca delle democrazie liberali della seconda metà del Ventesimo.
Cosa fare, dunque, contro un avversario che pensa che la nostra libertà e le nostre regole siano le nostre debolezze sistemiche, si è strutturato in modo ideale per sfruttarle e ha il tempo, la capacità e la volontà politica per farlo?
Primo, recuperare e proteggere il carburante. Le democrazie liberali dipendono dall’istruzione del loro popolo. Proprio come quando si affrontano minacce belliche le risorse di emergenza vengono allocate alle armi, o quando si affronta una pandemia ai vaccini, le istituzioni dovrebbero attribuire risorse massicce all’istruzione e alla preservazione delle capacità cognitive dei nostri giovani e trattarla come il problema esistenziale che è. Più Welfare significa anche meno rabbia e più risorse disponibili per la nostra classe media per coltivare conoscenza e razionalità.
Secondo, proteggere i dati. L’ascesa dell’AI deve innescare una ridefinizione di ciò che è informazione sensibile. I dati che oggi consideriamo non sensibili sono diventati estremamente preziosi se elaborati in massa e dovrebbero essere protetti di conseguenza.
Terzo, educare i decisori. Viviamo in un’èra di questioni molto tecniche con un’importanza strategica profonda. Non sarà facile spiegare ai nostri leader politici di alto livello il targeting algoritmico e perché dovrebbero preoccuparsene, ma è cruciale se vogliamo sopravvivere alla marea.
Quarto, coordinare. Il concetto di sicurezza è cambiato. Dovremmo includere domini come la ricerca accademica, la salute e i materiali critici nei nostri processi di sicurezza nazionale e garantire una comunicazione permanente tra di loro.
Quinto, integrare. Da questa parte dell’Atlantico nessun paese ha speranza di sopravvivere a questa competizione da solo. Le politiche degli stati membri dell’Ue su questioni come lo screening degli investimenti e la sicurezza della ricerca devono allinearsi, altrimenti continueremo semplicemente a essere giocati gli uni contro gli altri. La strategia di sicurezza economica dell’Ue è una scintilla di consapevolezza, ma non può essere sufficiente finché l’Ue è ostaggio dell’unanimità.
Infine, e più problematicamente, molti osservano che dovremmo essere pronti ad accettare restrizioni alla nostra libertà per rimanere nel gioco. Rispetto a questa tesi non possiamo cavarcela voltando semplicemente la testa dall’altra parte. In fin dei conti vietare una piattaforma di social media, porre limiti agli investimenti, in generale richiedere più collaborazione dal settore privato significa già, in qualche misura, comprimere la nostra libertà. La necessità di difenderci ci metterà di fronte al problema di dove sia la linea e fino a che punto possiamo spostarla prima di smettere di essere noi stessi. Ma altre volte in passato le democrazie sono state sfidate sfruttando la loro stessa libertà e hanno vinto rimanendo sé stesse. La mente va alla guerra asimmetrica nel suo senso originale, contro il terrorismo e l’insurrezione.
Alle nuove leadership dell’occidente dobbiamo chiedere di guardare al prossimo decennio invece che ai prossimi mesi, privilegiare la strategia alla tattica ed essere pronti a pagarne il prezzo politico. O non rimarrà nessun “noi”.
Beniamino Irdi, Senior Fellow, Scowcroft Center for Strategy and Security, Atlantic Council