La mostrificazione di Israele in un manuale di semiologia e nel paragone tra stato ebraico e nazismo

La semiologa Valentina Pisanty propone di limitare l’uso della categoria “antisemitismo” per definire il campo di studio accademico e difendere la libertà di critica Israele che verrebbe limitata dall’accusa di antisemitismo

“Antisemita” scritto dalla professoressa Valentina Pisanty, semiologa all’Università di Bergamo, per le edizioni Bompiani, non è un saggio sull’antisemitismo, ma un manuale di istruzioni per poter dire 364 giorni all’anno che Israele è nazista e poi il 27 gennaio pretendere di essere sul palco a celebrare la Giornata della Memoria. Pisanty propone di limitare l’uso della categoria “antisemitismo” al classico fenomeno otto/novecentesco o al suo eventuale ripetersi immutato. L’obiettivo è duplice. Definire il campo di studio accademico e difendere la libertà di parola, in particolare il diritto di critica a Israele, libertà che verrebbe limitata dall’accusa di antisemitismo.

Siccome la professoressa scrive per un pubblico italiano, possiamo rassicurarla. Nel nostro paese, l’antisemitismo non ha mai fermato nessuna carriera né silenziato nessuno. In Italia, alla fine della Seconda guerra mondiale, il presidente del fascistissimo Tribunale della Razza divenne presidente della Corte costituzionale, ma venendo ai giorni nostri sappiamo che non vi sono conseguenze a travestirsi da SS, né ve ne sono state per chi in questi mesi ha indottrinato gli studenti alle tesi di Hamas o ha imbastito programmi televisivi in cui il dibattito è stato in equilibrio tra il Jihad islamico ed Hezbollah: nessuno ha subìto né subirà alcuna ostracizzazione da parte dell’opinione pubblica o delle istituzioni. Pisanty affronta il paragone tra Israele e nazismo: questo luogo comune rientra o meno nella definizione di antisemitismo? La stessa professoressa confessa l’imbarazzo, perché dare dei nazisti agli ebrei non è come dirlo a chiunque altro, ma opta alla fine per il ‘no’.

L’autrice non tiene conto che tale caricatura grottesca dello stato ebraico, oltre a non essere minimamente suffragata dai fatti, ha delle conseguenze. La professoressa si limita a ipotizzare quali pensieri razionali siano alla base di tale affermazione, ma non si pone il problema di cosa generi. La mostrificazione di Israele smuove emozioni che vanno comprese. Non basta derubricarle a istanze anticolonialiste, altrimenti avremmo le piazze piene per il Sahara occidentale. Non si tratta dell’orrore per una democrazia in guerra, altrimenti le scuole europee verrebbero occupate per la Turchia che bombarda i curdi. Non si spiega con l’alto numero di morti civili, poiché, anche qualora si decida di prender per buoni quelli spacciati da Hamas, restano comunque una piccola frazione delle 600 mila persone ammazzate in Siria con Assad senza che nessun nostro sindacato abbia scioperato. “No jews, no news”. Se non si parla di ebrei non interessa.

Se un palestinese non ha la “fortuna” di essere ucciso da un proiettile dell’esercito israeliano non conta. Gli omosessuali buttati dai palazzi di Gaza dagli sgherri di Hamas? Non sono notiziabili. Lo aveva capito il poeta palestinese Mahmoud Darwish, “l’interesse occidentale per la causa palestinese deriva da quello per la questione ebraica”. E questa cosa qui – questo “interesse” per gli ebrei che porta in piazza la massa aizzata e legittimata dall’odio per i “nuovi nazisti”, odio che conduce a bruciare le bandiere di Israele, a partecipare a manifestazioni in cui si canta “uccidiamo gli ebrei”, a guardare indifferenti le scritte sui muri delle comunità ebraiche, ad aggredire ebrei per strada invocando Rafah o al rogo delle pietre d’inciampo – se non vogliamo chiamarlo “antisemitismo”, se non rientra nei criteri accademici, cara professoressa, come lo chiamiamo?

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