Riflessioni su una stagione parigina dove, a dispetto della crisi e di molti nomi spariti, chi è rimasto ha puntato al lusso assoluto, alle lavorazioni di centinaia di ore, i tessuti unici. Con un unico spartiacque: l’attenzione per la realtà quotidiana, o la fuga nel regno della letteratura e del cinema
L’idea che la haute couture debba avere un rapporto diretto con la vita di tutti i giorni è smentita dalla storia della haute couture stessa: lo dimostrano le collezioni orientali di Paul Poiret, i suoi manteau-kimono che, semplificati, avrebbero influenzato la moda occidentale fino al Déco, la collezione “cirque” di Elsa Schiaparelli, le sfilate di Thierry Mugler negli Anni Ottanta e quelle di Jean Paul Gaultier lui-même fino al gennaio del 2020, cioè non i ragazzi più o meno abili che ormai vengono chiamati a interpretarne la storia, una stagione dopo l’altra.
Ero presente quando, vent’anni fa esatti, Giorgio Armani fece sfilare la sua prima collezione Privé in un loft di rue Lauriston, chic ma anche tristemente nota come la via dove si era installata la Gestapo francese durante l’occupazione, e i francesi, sempre odiosetti con gli italiani benché da decenni questi ne possiedano, ne gestiscano o ne dirigano le insegne più prestigiose dell’alta moda, dissero che ricordava troppo da vicino il prêt-à-porter per il quale il Maestro andava noto, facendo intendere insomma che la haute couture c’était autre chose. L’altra sera, nelle sale del palazzo di rue François 1er dove da un anno hanno trovato sede le attività di Armani a Parigi, accanto a Dior e agli uffici storici di Givenchy, insomma la strada dove la Francia ha fatto la moda dal dopoguerra, Armani ha fatto sfilare una collezione di alta moda per l’estate 2025 che sarebbe difficile definire meno che perfetta: lo è già da diversi anni, ma solo ultimamente la sua alta moda ha raggiunto quell’assoluto equilibro fra incanto dell’ideazione, preziosità dei materiali e delle lavorazioni (i plissé trattenuti sul fondo degli abiti, i rasi duchesse dai riflessi metallici liquidi e luminosissimi che basta un taglio appena sbagliato perché si spengano), seduzione (le organze tempestate sì di pietre colorate, ma trasparenti), e portabilità che sono la sua cifra e la ragione ultimativa del suo successo.
Comunque tu sia vestita Armani, fosse pure con una di quelle sottovesti ricoperte di cristalli e maliziosamente incrociate sulla schiena che hanno sfilato poche ore fa e sulle quali le ventenni presenti si sono sdilinquite, non ti senti mai fuori posto, o tanto meno travestita. “Antica”, come si dice nella moda e che è stato invece un po’ il punto dolente della collezione di Daniel Roseberry per Schiaparelli, fino ad oggi totalmente libero e interessante e audace e da due stagioni invece chiuso in una rilettura di modelli di Madame Grès e Balenciaga dei primi Anni Cinquanta, che a sua volta riprendeva, sublimandola, la moda del tardo Cinquecento, i Velasquez del guardinfante, innestandovi sopra un bustino moderno e sotto una cascata di tulle di seta.
Guardare a forme antiche con la leggerezza richiesta da chi, oggi, nulla sa di storia della moda e vuole solo comprare un sogno, sentirsi bellissima, ricchissima, unica, e che rappresenta ormai la stragrande maggioranza della clientela pur molto ridotta dell’alta moda, tra le cinque e le ottomila persone in tutto il mondo, è patrimonio di pochi couturier e, fra chi sfila a Parigi, di nomi come Giambattista Valli, cresciuto nel negozio di tessuti d’eccellenza di famiglia, allevato alla corte di Roberto Capucci e delle sorelle Fendi, quindi promosso direttore creativo di Emmanuel Ungaro prima di aprire la sua maison, oppure di Gherardo Felloni per Roger Vivier, a sua volta figlio d’arte, capace di disegnare calzature e borse in pezzi unici che fondono ispirazione e storia senza peso apparente, né narrativo né fisico.
Maneggiare la sartoria senza farsene schiacciare, senza accedere in stecche, perle, pieghe, ricami, è un’arte sottile anche quando si punta sull’ironia e il divertissement, come Viktor&Rolf, o sulla forza anche immaginifica delle donne, come nel lavoro di Maria Grazia Chiuri (vedere “Foglio di oggi). Per questo, e per tornare alla considerazione iniziale, considerare la haute couture come una sublimazione del pret-à-porter a uso dei ricchi è errato almeno quanto immaginare il contrario. Però, la terza via scelta da Alessandro Michele per la sua prima sfilata couture da Valentino, “Vertigineux”, nonché la sua prima couture tout court, merita una riflessione che non ci sentiamo ancora di fare in via definitiva, come certamente non l’ha ancora fatta nemmeno lui.
Raccontano le cronache spontanee di Palazzo Mignanelli, ma lo riconosce pubblicamente lui stesso con molta, abile innocenza, che la collezione nasca da una profonda ricerca negli archivi Valentino, soprattutto degli Anni Sessanta e Settanta, e da una loro rilettura personale dove si innestano le sue ossessioni e passioni: la semiotica dell’abito, la stratificazione dei segni, rappresentati visivamente anche in sfilata in una “lista poetica” di referenze culturali e storiche (“come tutti i collezionisti, ho l’ossessione delle liste, la vertigine delle liste come la definiva Umberto Eco”) e il cinema. Non è un segreto per nessuno che Michele avesse studiato da costumista, e che costumista favoloso sarebbe stato se non avesse la determinazione di trasferire il suo ricchissimo immaginario sui corpi del quotidiano, e non è un segreto per nessuno che, come chi scrive, abbia fatto parte del gruppo ammesso nel piccolo appartamento di Campo Marzio dove viveva Piero Tosi, traendone insegnamenti, aneddoti, storie fantastiche, rigore assoluto nel lavoro.
Nella sfilata di Michele, le cui ore richieste dalla lavorazione di ogni abito si inserivano nella stessa lista vertiginosa, si accavallavano i riferimenti ai “Clown” di Federico Fellini immaginati da Danilo Donati (e chissà se qualcuno capirà mai la strepitosa bellezza di quel primo abito, quell’Arlecchino privo di struttura, costruito solo di strisce di organza apposte l’una all’altra, arricciate), al Settecento inglese delle redingote dei dipinti di Reynolds ma rilette da Milena Canonero, ai ritratti dei cardinali della Roma barocca, con quelle sete marezzate, quei gros de Tours dipinti da Guercino e Guido Reni che tanto ossessionavano Valentino Garavani, il ragazzo di Voghera sedotto dal fasto dell’aristocrazia nera di Roma. Ma se il signor Garavani partiva dalla storia del costume e dall’arte per trasformarla in moda, qui siamo a un percorso non contrario ma tangente, alla moda che non torna costume, ma si trasfigura, come nell’abito ripreso da una storica immagine della contessa di Castiglione, tulle a pois, tutto a volani, accompagnato però da una maschera contemporanea.
E’ un racconto diametralmente opposto a quello che faceva Pierpaolo Piccioli, che toglieva e astraeva il messaggio un po’ barocco del fondatore, eliminandone anche il citazionismo talvolta pedissequo, ed è anche un racconto di apprendistato. Che non sia stato e non sia facile, il rapporto fra Michele e le star della sartoria che lavorano in piazza Mignanelli da decenni, intervistate da stampa e tv, protagoniste di talent show, abituate a interagire con attrici, cantanti, milionarie, aristocratiche, leader politiche, è testimoniato non solo dalle solite cronache spontanee, a Roma tutti si conoscono, ma dallo stesso Michele, che ammette più volte come “le sarte diano il loro giudizio su quello che fai”, che nella couture il rispetto reciproco sia una conquista, e che il tempo, l’apprendimento della lentezza, sia un passaggio necessario per comprendere a fondo anche il processo di nascita di un abito, il suo crearsi, disfarsi, modificarsi giorno dopo giorno, talvolta per mesi. Il suo essere un’entità terza, dipendente dal corpo che lo modella e lo “abita”, in senso proprio e figurato, ma anche autonomo.
E’ stato anche questo il senso della passerella costruita a Palazzo Brogniart dove un tempo sfilava Fendi, totalmente nera ad eccezione delle scritte a led: celebrare una nascita, anche personale. Dice il ceo di Valentino, Jacopo Venturini, che produrre bellezza è l’unica risposta a questa crisi. Uno dei pochi negozi del 1er arrondissement dove abbiamo visto una fila costante all’esterno, anche sotto la pioggia, si chiama Polène: il gruppo Lvmh vi è entrato attraverso il fondo L Catterton poco tempo fa, in una delle sue operazioni di diversificazione. Vende borse, molto gradevoli, molto cool, molto promosse dalla serie “Emily in Paris”, a 300-500 euro. E’ un altro mondo, un altro mercato, dicono tutti. Ma siamo quasi certi di aver riconosciuto nella boutique di rue de Richelieu alcune delle fanciulle asiatiche che affollavano la sfilata di Dior.