Chi è Russell Vought, la mente dietro i tagli ideologici di Trump (e del Project 2025)

Una delle figure meno note ma più potenti della seconda Amministrazione e le sue teorie. Tra le più controverse quella di dare possibilità al presidente di decidere di sospendere o non erogare del tutto alcuni fondi stanziati dal Congresso

Dopo gli aiuti internazionali, la scure di Donald Trump colpisce anche gli investimenti federali. Tutti, almeno fin quando “entro il 10 febbraio”, le varie agenzie sottoporranno all’Ufficio Management e Budget un dettagliato resoconto sui programmi oggetto del congelamento, per capire “se sono coerenti col programma dell’Amministrazione Trump”. Lo rivela un memo visionato dalla Reuters. La ragione addotta per quest’ordine che lascia molti dubbi dal punto di vista della correttezza costituzionale è che alcuni di questi progetti potrebbero comportare “assistenza finanziaria all’estero e alle ong, a programmi di diversità e inclusione, all’ideologia woke e gender e al Green New Deal”.



Dietro a questo metodo c’è Russell Vought, una delle figure meno note ma più potenti di questa seconda Amministrazione, scelto per guidare il già citato Ufficio Management e Budget. In teoria una carica minore e quasi notarile che però si può trasformare qualora abbia alle sue spalle un ideologo come Vought. Classe ’76, ha già occupato l’incarico in questione negli ultimi mesi della prima Amministrazione del tycoon. Laurea in giurisprudenza presso la George Washington University, il suo cursus honorum è quello del perfetto staffer repubblicano: un periodo presso l’ufficio lobby della Heritage Foundation e una lunga collaborazione con varie entità del Gop alla Camera e al Senato. Fino a che, a fine 2020, scrisse un documento contro la “Critical Race Theory” qualora fosse stata insegnata ai dipendenti del suo ufficio. Dipendenti che peraltro ha cercato di rendere più facilmente licenziabili tramite il controverso ordine denominato Schedule F, cancellato da Biden nei primi giorni di presidenza e ripristinato da Trump una settimana fa circa.

Non c’è solo questo nell’idea di Vought: per capire cosa pensi, bisogna andare a pescare il controverso Project 2025, un corposo vademecum realizzato dall’Heritage Foundation e da altre associazioni come “piano d’azione per il prossimo presidente conservatore” nel 2024. Nonostante Trump avesse detto di non aver nulla a che fare con quel progetto impopolare (soltanto il 13 per cento dell’opinione pubblica ne sostiene i tratti marcatamente autoritari) lo scorso novembre ha nominato proprio Vought, che è uno dei principali architetti del progetto, dove s’intravedono anche alcuni tratti cari al nazionalismo cristiano bianco, come il lavoro che va fatto per rendere più “religiosa” la società.



La teoria però più controversa, in questo caso, è quella che riguarda una parte dei poteri presidenziali: a parere di Vought, il presidente può decidere, come nel caso degli investimenti bloccati, di sospendere o non erogare del tutto alcuni fondi stanziati dal Congresso. Una prassi che è stata operativa dal 1801 fino al 1974, quando fu votata una legge da Camera e Senato a maggioranza democratica per bloccare eventuali abusi della “presidenza imperiale” di Richard Nixon. Presidenza imperiale che però secondo Vought va ripristinata, anche con l’aiuto della sua piccola ma fondamentale carica, che ha paragonato in una recente audizione al Senato a quella di una “torre di controllo aeroportuale”. In pratica, deve controllare che tutte i voli, ovvero le agenzie e i dipartimenti che compongono il governo federale, vadano nella direzione voluta dal presidente Trump. Nessuna indipendenza, il mandato popolare ricevuto dal tycoon supera tutte queste cose, ripristinando i “valori autentici” della Costituzione. Una frase ambigua che in realtà nasconde la volontà di purgare la burocrazia federale passo passo. Insomma, quella “distruzione dello stato amministrativo” evocata nel 2017 da Steve Bannon ma mai realizzata anche perché era stata proposta senza sapere bene come metterla in pratica.



Sulla sua strada ci saranno dei ricorsi quasi sicuri, non solo da parte delle associazioni sindacali dei dipendenti pubblici. E stavolta i precedenti non sono rosei: quando nel 1996 l’Amministrazione di Bill Clinton fece approvare il cosiddetto “line item veto”, un potere selettivo di cancellazione di alcuni punti delle leggi approvate dal Congresso, si andò davanti alla Corte Suprema: una maggioranza ideologicamente composita di sei giudici contro tre stabilì che il presidente andava oltre i suoi poteri costituzionali. Tra i firmatari della sentenza, scritta dal progressista John Paul Stevens, c’era anche Clarence Thomas. Chissà come si esprimerà sul tema nei prossimi mesi, quando dovrà valutare la costituzionalità della visione iperpresidenzialista di Russell Vought.

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