Nella “Giovanna d’Arco” di Parma latitano le idee forti. Almeno c’era la malvasia

In mezzo ai deliri mistico-erotico-neoguelfi, Verdi sperimenta formule nuove affacciandosi al grottesco. Ma al Teatro Regio viene cantata la versione censurata del libretto, mettendo in scena uno spettacolo visivamente bello, ma troppo prudente

Altro che le sceneggiate di Sant’Ambrogio, la prima più “prima”, intesa come festa cittadina, celebrazione autentica, matrimonio d’amore fra la comunità e il suo teatro, è quella del Regio di Parma. E dunque venerdì scorso pubblico elegantissimo, gran giro di culatelli e malvasie nei retropalchi (sì, qui all’opera si mangia ancora, adesso mettete qualche tavolo di faraone nel ridotto e sarà perfetto), fotogallery su chi c’è, com’è vestito sui giornali locali, insomma tutti i riti e miti della nostra meravigliosa, stendhaliana provincia, anche se la vicenda della Certosa, come insegnava Antonio Delfini, si svolge in realtà a Modena. Poi c’è anche l’opera, quest’anno un Verdi dei meno sempreVerdi: “Giovanna d’Arco”, titolo “di galera” minore ma non minimo.

L’impressione è che nel 1845 Verdi non avesse ancora l’esperienza e l’autorevolezza per tenere a freno il suo librettista Temistocle Solera, qui perfino più scatenato che nei “Lombardi”, dove pure non scherza. I suoi deliri mistico-erotico-neoguelfi rendono sghemba la drammaturgia, contraddittoria la definizione dei personaggi, talvolta comica la lettura di un testo involontariamente camp. Ma Verdi ne approfitta per sperimentare formule nuove, mentre si affaccia prepotente una categoria che diventerà fondamentale nella definizione del suo teatro: il grottesco. I diavoli che tentano la Pulzella cantando un valzerino perfetto per la sagra della spalla cotta (nella vicina San Secondo, però, non a Busseto) furono biasimati da generazioni di esegeti verdiani: oggi ci appaiono stranianti e allucinati. Un mistero, però, perché a Parma venga cantata la versione censurata del libretto e non quella originale come da edizione critica, pure annunciata.

Una vicenda del genere, con Giovanna amata dal re di Francia e tradita dal padre baritono che la crede una strega, poi si pente, la libera e così lei può tornare in battaglia dove muore invece di finire flambé, appariva ideale, fra femminismi e misticismi, per Emma Dante. Si resta però un po’ delusi, e non perché lo spettacolo non sia visivamente bello, ma perché appare troppo prudente. Sarà che Dante ha capito che corre il rischio di ripetersi, insomma del manierismo, sarà che siamo pur sempre a Parma dove quanto a regie d’opera non hanno ancora digerito Ronconi, sta di fatto che latitano le idee forti e le immagini appaiono più poetiche che incisive. C’è un doppio di Giovanna, che porta i capelli corti quando fa la guerriera e lunghi quando vagheggia amori impossibili: bella trovata la Giovanna bis, dunque capelluta, che si aggira in versione povera Crista portando sulla schiena un’enorme croce fatta di fiori. Ma, appunto, è l’unico momento in cui la Dante fa la Dante.

Notevole invece la direzione di Michele Gamba alla testa di un’ottima Toscanini e del coro a chilometro zero di Faggiani, di ineccepibile idiomaticità verdiana. Fin dalla bellissima sinfonia, Gamba differenzia piani sonori e sottolinea contrasti, senza aver paura della supposta “volgarità” verdiane: la banda è nelle orecchie di chi ascolta prevenuto, non nella partitura. Funziona anche la compagnia. In una delle più terribili parti da soprano kamikaze del Verdi giovane, Nino Machaidze parte cauta e sembra più preoccupata di fare tutte le note che di dare loro un senso: poi cresce, e il finale è assai bello. Inappuntabile, sicuro, espressivo, al solito, Luciano Ganci come re Carlo. La rivelazione è il nuovo mongolo. Qui bisogna spiegare che ultimamente si assiste a una improvvisa fioritura di baritoni made in Mongolia accomunati da voci imponenti e nomi impossibili. Dopo Amartuvshin Enkhbat, ormai una star, adesso tocca ad Ariunbaatar Ganbaatar, già ribattezzato il mongolo 2.0, che ha grande volume, grande estensione, grande presenza scenica, insomma è tutto di taglia XXL, e in più canta in un eccellente italiano dando anche l’impressione di sapere cosa va tuonando. Pubblico gelido nei primi due atti, poi sempre più festante fino al trionfo finale. Sarà l’effetto della malvasia.

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