Una vita inseparabile dall’opera letteraria, con un volto da giovane soldato pronto per la battaglia. E il suo suicidio è un manifesto per gli intellettuali di oggi
Uno scrittore in uniforme, i guanti bianchi, lo sguardo verso il sole, in una posa quasi mussoliniana da comizio, fa gettare fogli sulla folla sotto il balcone, poi grida per tre volte Tenno Heika Banzai! Lunga vita a sua maestà l’imperatore! Nella stanza dietro di lui un generale è stato legato alla sedia. Siamo nel Quartier generale del comando orientale delle forze di autodifesa di Ichigaya a Tokyo. Uno scrittore che tenta un colpo di stato? Assurdo. L’uomo rientra dentro e come un samurai si squarcia lo stomaco con il tanto, il coltello rituale. La lama entra, poi va verso sinistra, poi destra e poi in alto, veloce. Dietro, un fedele amico e compagno, gli taglia la testa, facendo cadere il corpo in avanti. Viene aiutato da un terzo perché l’amico con la katana non riesce a fare un taglio netto. Il dolore non deve sfigurare il volto, che deve restare perfetto. La bellezza è fondamentale. Bellezza, morte e gioventù sono i grandi temi dei numerosi libri dello scrittore suicida. Si suicidano i personaggi dei suoi romanzi e poi si suicida anche lui. Era il 1970 e Yukio Mishima aveva 45 anni. Per tutta la vita, come lui stesso descrive uno dei suoi personaggi in un racconto, “il suo volto sembrava quello di un giovane soldato pronto per la battaglia”.
Si cerca di separare l’arte dalla vita. Solitamente è una pratica sacrosanta – riprendiamo come amuleto in quest’epoca iper moralista e censoria il Contro Sainte-Beuve di Proust, applicandolo a Céline, a Pierre Drieu La Rochelle, a Polanski e a Woody Allen, e cerchiamo di salvarne le opere. “Un libro è il prodotto di un io diverso da quello che si manifesta nelle nostre abitudini, nella vita sociale, nei nostri visi”, scrive Proust, attaccando il critico Sainte-Beuve, convinto invece che per capire e godere di un’opera dobbiamo sapere tutto della vita dell’autore. Con il giapponese però siamo davanti all’eccezione che conferma la regola, e abbracciamo il saintebeuvismo. L’opera di Mishima, letta alla luce della sua vita, prende ancora più potenza. Leggere Mishima senza il suo suicidio è come immaginare di leggere i vangeli dove alla fine Gesù non finisce sulla croce, ma riprende in mano l’attività di falegnameria iniziata dall’anziano padre Giuseppe. Ed è inevitabile, se vogliamo parlare della vita di Mishima, iniziata cento anni fa, il 14 gennaio del 1925, parlare della sua morte. Il tanto usato rituale antico dell’harakiri è simbolico quanto la croce per il Cristo, la fascia in testa con il sol levante rosso tanto quanto la corona di spine. “Il valore di un uomo si rivela nell’istante in cui la vita si confronta con la morte”, scrive.
Ma cosa chiedeva lo scrittore in quel suo ultimo discorso sul balcone prima di farla finita? Perché si abbandona lo studiolo, la scrivania, la biblioteca, per incitare la folla agitando le mani invece che limitarsi alla querelle pubblicistica? Perché usa il sangue invece dell’inchiostro per dire la sua? Mishima sul balcone chiedeva con enfasi al suo amato paese di liberarsi della Costituzione imposta dagli americani. Siamo in un Giappone che ancora si stava ricostruendo dopo la guerra, le due bombe e la resa incondizionata firmata dalla delegazione imperiale sulla corazzata Missouri davanti al generale MacArthur. Mishima chiedeva un ritorno alle tradizioni, stanco che il paese venisse conosciuto per i suoi “arrangiamenti floreali”. Per questo anche un gesto da samurai, un gesto che è rituale e tradizionale, antico e identitario del suo paese, è un manifesto.
“Dobbiamo morire per restituire al Giappone il suo vero volto!”, grida davanti ai soldati sotto al balcone. “E’ bene avere così cara la vita da lasciar morire lo spirito? Che esercito è mai questo che non ha valori più nobili della vita? Ora testimonieremo l’esistenza di un valore che è superiore all’attaccamento alla vita. Questo valore non è la libertà! Non è la democrazia! E’ il Giappone!”.
Il suicidio di Mishima, dice il biografo e amico Henry Scott-Stokes, “per alcuni è stato un suicidio d’amore omosessuale, per altri un’opera d’arte, io penso che la politica sia stata estremamente cruciale”. Oltre diecimila persone al suo funerale, in molti depongono fiori bianchi di fronte alla sua foto. Alcuni sono ancora arrabbiati con lui perché ha osato criticare l’imperatore, un vero tabù, perché dopo la guerra ha rinunciato alla sua pretesa divinità. Per lui gli americani hanno ucciso la santità del monarca. “Voleva drammatizzare la fine della sua vita in un bel modo”, dice dello scrittore il regista Nagisa Oshima. Ma voleva anche essere l’ultimo samurai. “Fu l’artista in lui, senza dubbio, che decise come meglio usare la propria morte”, scrive Henry Miller nel suo Riflessioni sulla morte di Mishima. “L’inclinazione per la morte è frequente negli esseri dotati di grande avidità per la vita. Se ne trova traccia, in Mishima, fin dalle prime opere”, scrive Marguerite Yourcenar in Mishima o la visione del vuoto. Era “un conservatore decadente, lodatore raffinato ed estetizzante di un’epoca conclusa ma recente, morto per motivi d’onore contro l’imbastardimento culturale del Sol Levante”, diceva Alberto Moravia. L’Hagakure, un trattato nipponico per guerrieri a cui Mishima scrisse un’introduzione, dice: “Morite col pensiero ogni mattina e non avrete più paura di morire”.
Nato Kimitake Hiraoka nel segno del Capricorno, viene praticamente rapito da piccolissimo dalla nonna, che aveva sangue samurai, e tenuto in casa da lei, senza grandi possibilità di uscire a giocare con gli altri. Diventa così lettore dei libri che c’erano nel salotto. Cresce con le storie dei fratelli Grimm, con quelle loro scene horror che tanto avranno effetto sulla sua immaginazione, e testi di Oscar Wilde e Robert Louis Stevenson. Mishima, nonostante il nazionalismo, è fondamentalmente uno scrittore occidentale, così come è stato un lettore occidentale. In questo non è diverso da un altro autore di equivalente fama seppur di un’altra generazione come Haruki Murakami, per cui Il grande Gatsby o i Beatles sono più influenti degli autori asiatici e degli haiku, che ha sostituto ai samurai il jazz e il jogging.
Bravo studente, Mishima è già esaltato dalla guerra e da una morte gloriosa quando vede gli aerei volare sul Pacifico contro gli Alleati. Ma evita di partire mentendo al medico, inventandosi malattie e febbri e dolori, e a distanza di anni rimpiange quella scelta, quella codardia, lui che, dice a posteriori, avrebbe voluto morire “tra sconosciuti, sotto un cielo senza nuvole”. Legge Rilke, Nietzsche, Thomas Mann – in tedesco – e poi i francesi, Racine. Si dedica alla scrittura. A 24 anni diventa un bestsellerista grazie all’aiuto del mentore Kawabata, che poi vincerà il Nobel e di cui Mishima sarà geloso. Quando in un video il vecchio Kawabata dice “non mi interessa vincerlo”, il giovane allievo, serio, lo guarda strabuzzando gli occhi e gli chiede: “Ma stai scherzando?”. Il libro del successo è Confessioni di una maschera, che usa una frase di Dostoevskij come esergo e che già contiene la parabola della sua vita: “La bellezza è cosa terribile e spaventosa!”. Il libro, che per il centenario Feltrinelli porta in libreria in una nuova edizione con traduzione di Andrea Maurizi, già nel titolo contiene una contraddizione, modo chiave di vivere di Mishima, dandy e samurai insieme. Può una maschera parlare, confessarsi, dire la verità? Mishima parla di identità giapponese e vive in una casa “alla occidentale”, che si era disegnato, con tanto di stucchi sul cornicione, boiserie e finta statua neoclassica in giardino, dove prende il sole sul lettino. Fuma sigari, si mette la cravatta, e attacca il materialismo e quel consumismo occidentale che ci costringe a “non essere mai soddisfatti. I samurai vivevano per l’ordine e lo spirito, e trovavano disgustosi i soldi”. Lui scrive molto, anche per guadagnare. Non è mai sazio.
Si butta nell’antico e solenne teatro no, come fuga dal contemporaneo, e lo adatta al ‘900, poi anche nel kabuki, teatro più volgare. Diventa attore, e pure di discreto successo, in film dove faceva soprattutto il gangster della yakuza, o, per sua gioia, il samurai. In uno canta anche la sigla di apertura. Stonatissimo, si allena duramente e riesce alla fine a registrare una performance decente. E’ pieno di forza di volontà. E poi bodybuilding e arti marziali e dopo le sollevazioni degli studenti negli anni 60 presta più attenzione alla politica. Meno biblioteca e più azione. Decide di scrivere e dirigere un film dove interpreta un soldato che si suicida con l’harakiri (un modo per educare gli studenti all’ordine e alla bellezza, dice). Nel ‘67 è eletto “Mr Dandy” dalla rivista Heibon Punch, rivale di Playboy. Nel ‘68 fonda il Tatenokai, la Società dello Scudo, una milizia privata dedicata all’arte della spada, il kendo, e alla condotta da samurai, il bushido – saranno loro ad accompagnarlo nel tentato colpo di stato, e a loro lascerà dei soldi per le successive spese legali. Frequenta la scena gay di Tokyo. Il partito liberale gli chiede di candidarsi a governatore, lui rifiuta. Mishima è larger than life. Fa di tutto, contiene moltitudini. Ha attacchi di immaturità e soffre per la sua scarsa altezza e per il corpo gracile. Quando si sposa, quasi soprattutto per far contenti i genitori, mette come condizione che sua moglie sia più bassa di lui, e che non si immischi mai nel suo lavoro. Fa due figli. Per compensare la sua minutezza ha iniziato negli anni 50 ad allenarsi costantemente. Dopo le gite in Grecia vuole un corpo come quello delle statue che vede nei musei.
Si fa fotografare a mezzo busto o dal basso, perché le gambe più di tanto non riesce a pomparle. Ottenuto un corpo che lo soddisfa inizia a farsi fotografare nudo. Esibizionista, chiama i fotografi e si mette in posa tra le frasche, con la spada in posizione di attacco, appoggiato su una motocicletta con gli occhiali da sole, sugli scogli a prendere il sole in una posa da semidio ellenico, legato come un martire cristiano, o come San Sebastiano colpito dalle frecce. Dice: “Il mio corpo era come un gioco nuovo da far vedere agli altri bambini, come una macchina sportiva alla moda per il suo proprietario orgoglioso”, ma, aggiunge, “non lascerò che il mio corpo decada come una macchina al ferrovecchio, non accetto il corso della natura”. Muore che è ancora in grandissima forma. L’harakiri è meno onorevole se si è brutti e vecchi. I samurai anziani venivano truccati prima del seppuku.
Bellezza e politica mescolate insieme nell’atto finale. Capacissimo di usare la propria immagine, la propria fama, Mishima è però – all’opposto di oggi – un uomo che non ha paura di scioccare il suo pubblico, da intellettuale/artista/scrittore/personaggio, vive senza il timore di perdere la sua fandom. Non gli interessa, raggiunta la fama, cosa pensano gli altri di lui, vuole solo lasciare un segno che vada oltre la carta, vuole che il suo messaggio si senta forte e chiaro, senza ipocrisie.
Il centenario è l’occasione, oltre che per rileggere i suoi libri, anche per cercare appigli con il presente, vedere quel che è rimasto, e cosa può dirci oggi Mishima. Per alcuni sono deliri nazionalisti di destra, per altri il canto del cigno di un’epoca finita, schiacciata da globalismo, capitalismo e americanismo. La fine dei riti. Ma per chi scrive di mestiere, se non da usare come maestro della prosa – “sapeva la parola perfetta per ogni cosa”, diceva il suo traduttore inglese – Mishima può essere studiato come modello, negativo o positivo, di intellettuale. Così diverso dagli autori di oggi, spesso aggrappati ai follower, che vivono in bolle sigillate con il terrore di perdere seguaci. Oggi per sopravvivere si deve diventare guru, più che maestri, più che esempi. Il sacrificio e il rischio sono nemici della sopravvivenza editoriale. Nessuno vuole più destabilizzare nessuno, solo confortare. Si leggono le news che confermano le nostre idee, i libri che ci fanno stare bene. Certo, la comodità degli scrittori non è una prerogativa contemporanea, per quanto una certa crisi della carta stampata porti a restare all’erta per paura di perdere il pane. Ma la radicalità di un Mishima oggi è impensabile. Il suo suicidio non è un fatto privato che la famiglia prova a nascondere – vedi Hemingway, dove la vedova Mary continuava a dire “è stato un incidente mentre puliva i fucili” – o per fare campagne sulle malattie mentali.
Il massimo che oggi può fare lo scrittore vivente di radicale è non usare i social. Come Jonathan Franzen nella sua capanna senza Wi-Fi che fa birdwatching, e ammonisce dal Guardian i proprietari di gatti lasciati liberi in giardino perché ammazzano gli uccellini. La cosa più radicale oggi per gli scrittori è non presentare libri brutti ai festival, anche se è il libro dell’amico dell’editor, o non postare su Instagram la copertina di quel romanzetto che tutti stanno leggendo, tipo Sally Rooney. La cosa più estrema oggi per uno scrittore è dimettersi da Amico della domenica e non partecipare allo Strega. Non è certo per istigare l’intellighenzia a gesti inconsulti – ci mancherebbe! – ma la parabola estremista di Mishima può servire forse a scuotere, a far vedere che ci sono scrittori mossi fino alla fine da valori inafferrabili e non solo di sopravvivenza. “Sapere e non agire equivale a non sapere”, diceva il giapponese.