Nonostante le guerre in atto e Trump, che cavalca un’idea pessimistica dell’America, ci si può ancora affidare al common sense per fare i conti con la realtà e coltivare l’ottimismo della ragione. Motivi? Molti, in Italia e nel mondo
Come si fa a essere ottimisti con tutto quel che sta accadendo? Durante un dibattito a Brescia mi sono sentito rivolgere questa domanda. Già, come si fa a essere ottimisti con una guerra di aggressione in Ucraina che non finirà mai davvero, un medio oriente in disordine continuo e irrisolvibile, un asse tra i nemici della liberal-democrazia che penetra nel cuore dei paesi liberal-democratici, con Donald Trump il quale giura sulla Costituzione, ma evoca l’assolutezza del mandato popolare contro la divisione dei poteri, con una tecno-plutocrazia disposta a perseguire un progetto autoritario.
E allora che cosa giustifica l’ottimismo: la forza di volontà, la legge della sopravvivenza o quale altra pulsione profonda? La risposta è davvero difficile, così tento di proporre una via d’uscita rovesciando lo stracitato detto di Antonio Gramsci sul pessimismo della ragione e l’ottimismo della volontà. E’ la ragione a essere ottimista, è nella sua dimensione che si possono cercare soluzioni ai problemi anche più gravi; soluzioni plurali, mai definitive, basate sul riconoscimento della realtà di per sé stessa complicata, mutevole tanto da imporre limiti alla sua conoscibilità così come alla capacità di trasformarla. L’universo della volontà, invece, è dominato dalle passioni, dagli odi, dall’opposizione amico-nemico. Volere è potere o nasce dalla paura e dall’impotenza?
Vladimir Putin vede la Russia e il mondo con le lenti del pessimismo e pensa che un atto di volontà possa invertire il corso sfavorevole della storia dopo “la più grande tragedia geopolitica del secolo”, cioè la fine dell’Unione sovietica. Donald Trump ha vinto cavalcando un’idea pessimistica dell’America, per lo più infondata, e illude i suoi sostenitori o forse il mondo intero che con una politica basata sulla volontà possa fare l’America di nuovo grande. La ragione suggerisce che l’America è già grande, è la Cina semmai che comincia a regredire, è la Russia che sta pagando duramente il putinismo con 700 mila morti, una economia allo stremo, una società spossata, una politica tornata alla dottrina Breznev: sovranità limitata e repressione interna. I dissidenti sono pochi e lontani dal popolo, ma “come gli scarafaggi, se non schiacci il primo sarai invaso da tutti gli altri”, così parlò il compagno Leonida. Il primato della politica nasce dal pessimismo, al contrario di quel che si immagina. La ragione è quella in cui si annida il buon senso che fa i conti con i fatti, con i dati, con le acquisizioni della scienza (sempre nuove e sempre passate al vaglio della prova, se davvero scientifiche), quella che non pretende di raddrizzare a forza il legno storto dell’umanità.
Cento anni fa il filosofo inglese George Edward Moore, pubblicò un saggio intitolato A defense of common sense, cioè della capacità di pensare e comportarsi in modo ragionevole e prendere le decisioni migliori nelle condizioni date. Il common sense è il contrario del luogo comune, delle convinzioni tanto più radicate quanto meno verificate. Nel corso del Ventesimo secolo ha subito molte sconfitte e lo stesso è accaduto nel primo quarto di questo Ventunesimo aperto di fatto dall’attacco del terrorismo islamico e chiuso con guerre, distruzioni e l’imperversare della pessimistica volontà di potenza: 11 settembre, Afghanistan, Iraq, la catena di attentati in Europa (Francia, Spagna, Uk), la crisi finanziaria del 2008-2009, la crisi dei debiti sovrani 2010-2012, la pandemia, l’onda nazional-populista, l’invasione dell’Ucraina, Gaza con annessi e connessi. Nel 2024 l’ottimismo della ragione ha dovuto resistere come gli stremati partigiani nel terribile inverno del 1944 e in questo 2025 dovrà mostrare tutta la sua resilienza, per preparare il riscatto. Resistenza, resilienza e riscatto, la formula delle tre R. Il common sense, però, può trovare un fondamento e una nuova vittoria (sempre parziale, sempre ragionevole) se rovesciamo il detto gramsciano.
Con le lenti di Moore
Lo scorso anno era cominciato con la minaccia di una violenza politica diffusa, quasi una nuova guerra civile negli Stati Uniti. Le elezioni si sono svolte in modo del tutto pacifico e corretto. La forza economica dell’America resta impressionante: dal 2020 è cresciuta tre volte più che la media dei paesi del G7 (i più industrializzati dell’Occidente). Il sorpasso da parte della Cina da tanti (quasi tutti) vaticinato non è avvenuto, al contrario il pil cinese è sceso a circa tre quarti di quello degli Usa. Una frenata della quale si parla troppo poco, dovuta fondamentalmente a fattori politici: la stretta del regime sta soffocando l’economia che, a differenza da quella russa, sale dal basso, non cade tutta dall’alto del potere, ha in sé una forte componente di mercato, come del resto volle Deng Xiaoping.
La prima grande modernizzazione partì con la liberalizzazione della terra che creò una nuova classe sociale: speculatori, palazzinari, anche, ma soprattutto imprenditori. In Russia è avvenuto il contrario con la ri-nazionalizzazione nel primo decennio del 2000 di quel che era stato privatizzato negli anni 90 del Novecento. Proprio il modello putiniano sta mostrando in pieno i fallimenti dell’autoritarismo. E’ vero che ha riguadagnato terreno in Ucraina anche per gli errori di Kyiv, tuttavia l’esercito va avanti lentamente. Quando è cominciata l’invasione, Mosca aveva conquistato il 30 per cento del territorio ucraino, oggi ne controlla il 20 per cento. Ancora troppo, ma chi blatera sulla vittoria di Putin ignora la realtà o finge di farlo: i geopolitici non conoscono la geografia o non guardano le carte? Senza contare poi che il paese è allo stremo. La governatrice della Banca centrale, Elvira Nabiullina, ha svuotato i forzieri e ha alzato i tassi d’interesse al 21 per cento, non siamo all’Argentina, ma la strada rischia di essere la stessa. Gazprom è al collasso, la principale fonte che porta valuta pregiata (cioè gas e petrolio) si sta inaridendo. E ancora. Il terrorismo islamico resta una minaccia, tuttavia il suo disegno politico da Al Qaida al nuovo Califfato è fallito. L’America e l’Europa se la sono cavata. Afghanistan e Iraq non sono andati come promesso, il medio oriente era, è e resterà la più caotica area del mondo, non c’è soluzione in vista. Però “l’asse della resistenza” guidato dall’Iran e composto dai suoi clienti, è in ritirata. Non solo: il regime degli ayatollah è al lumicino e molti pensano che la sua caduta, per crisi interna più che per attacchi esterni, sia vicina.
Al di là delle apparenze, dunque, stiamo tornando alla normalità? Ma cosa c’è di normale in Donald Trump? Si può dire che la propaganda elettorale è in gran parte uno specchietto per le allodole, ma il discorso di insediamento, le prime misure prese, la sfida a quel che i suoi ideologi non considerano americano, tutto ciò è solo teatro? Un’amica, kissingeriana ortodossa, adepta di geopolitica, mi ha invitato a gettare uno sguardo oltre il parrucchino peldicarota. Negli Usa il passaggio dei poteri ha rispettato le regole della democrazia americana. Nemmeno fosse una pagina di Tocqueville. Il Wall Street Journal che non ha appoggiato apertamente The Donald, ma è conservatore, scrive: Trump è una jumping ball, una palla che salta come quella con cui giocano i bambini o si fa ginnastica in palestra. E come quella palla si muove in modo imprevedibile. Il quotidiano che fa capo a Rupert Murdoch si candida a voce della fronda, quindi c’è ancora una dialettica politica nel campo conservatore che peserà sempre di più: diamoci appuntamento fra due anni, alle elezioni di mid-term.
Nel frattempo, Trump aumenterà dazi e tariffe, sarà un guaio anche per l’Italia, però deve stare attento a non rinfocolare quell’inflazione che in parte lo ha fatto vincere perché la riduzione del potere d’acquisto ha acceso le fiamme dello scontento. Perché non è la Cina a pagare le tariffe, ma gli importatori americani che le scaricano sul prezzo finale o chiudono bottega. Comunque sia, l’America non può fare tutto da sola e ciò che compra all’estero costerà di più. Drill baby drill non è necessariamente una manna per i petrolieri perché l’abbondanza di idrocarburi farà scendere i prezzi e il greggio del Texas è conveniente se costa oltre gli 80 dollari al barile, oggi siamo a 60.
Trump ha incoronato come nuovo eroe americano il sudafricano Elon Musk che ha aperto le porte all’auto elettrica odiata da Trump come da tutta la destra dell’occidente. Ha cominciato oltre dieci anni fa; poi nel 2018 quando era sull’orlo del fallimento si fece aiutare dalla Fiat di John Elkann e soprattutto dalla Cina: il regime gli ha concesso una infinità di favori. Adesso Trump andrà contro l’auto elettrica made in Cina, quindi anche contro la Tesla o Musk gli imporrà una eccezione? In tal caso come reagiranno i colossi GM, Ford, Toyota, Volkswagen, Stellantis con la Chrysler che è americana? Proprio nelle fabbriche dell’auto concentrate nel Midwest, lavorano milioni di operai, quegli stessi che spesso hanno votato Trump.
Da più parti si comincia a credere che nel 2025 assisteremo allo sgonfiarsi della bolla Musk. Se si segue Barron’s, il magazine finanziario collegato alla Dow Jones di Murdoch, si capisce che a Wall Street dopo una prima fiammata d’entusiasmo cominciano a essere stufi delle mattane ketaminiche. Mentre i servizi segreti hanno messo il veto al genio strafatto: l’amico di Putin, dipendente da Xi Jinping, contro il quale si è scagliato Steve Bannon, non potrà accedere ai segreti di stato, a meno che il presidente Trump non cambi le regole del gioco. Vedremo. L’impressione però è che lo stesso Musk abbia capito di non poter spremere di più dalla Tesla, un successo al di là di ogni aspettativa e ogni buon senso: come si fa a quotare oltre mille miliardi di dollari un’azienda che sforna e vende meno di due milioni di auto? L’eroico imprenditore ha detto che vuol produrre Tesla ibride, sarebbe una clamorosa marcia indietro piena di incognite: chi mai le vorrà se saranno meno affidabili e più care delle Toyota?
Musk se ne rende conto, quindi si butta sui mercati protetti: lo spazio e le telecomunicazioni sono industrie che hanno bisogno del governo, operano soltanto grazie a concessioni governative. E che cosa diranno i colossi del Pentagono, la Raytheon, la Lockheed che non sono meno potenti di Musk? Lo stesso vale per le comunicazioni: Starlink non potrà certo sostituire Verizon in America o Vodafone in Europa. Sulla scia di Musk si muovono Jeff Bezos, Mark Zuckerberg e tutti gli altri maghi high tech che hanno perso la bacchetta magica del mercato e sperano di banchettare nelle cucine dello stato padrone. Già litigano tra loro su come spartirsi la torta, a cominciare da quella dell’intelligenza artificiale, ma hanno tutti varcato i cancelli del Palazzo perché lì è il potere.
Con Pechino Trump sarà duro in economia e forse sarà molle su Taiwan, userà TikTok come mezzo di scambio, tratterà concedendo agli appetiti cinesi e salvando gli interessi americani nel Pacifico. Temiamo per l’Ucraina, abbiamo paura che Putin, ringalluzzito, scorrazzerà sulle pianure dell’est. In ogni caso non possiamo lasciare la difesa solo in mano americane; la Ue lo ha già detto, adesso deve farlo. Dobbiamo spendere, l’Italia deve arrivare anch’essa al 2 per cento del pil e anche molto più in là (Trump adesso ha fissato l’asticella al 5 per cento). Non lo sta facendo. Sovranisti, populisti, nazionalisti che oggi festeggiano faranno pagare anche ai loro elettori prezzi salati.
Trump ha vinto, sostiene il politologo conservatore Walter Russell Meade perché è riuscito a mettere insieme la vecchia e la nuova industria, la vecchia e la nuova America, i petrolieri trivellatori e gli innovatori high tech, ha diviso la lobby della Silicon Valley tradizionalmente liberal e ha fatto emergere non più solo la tecnologia della chiacchiera o dell’informazione, ma quella strategica, quella militare, quella della Intelligenza artificiale. Questa operazione ha dato sostanza al trumpismo che ha concentrato nelle sue mani una enorme force de frappe (investitura popolare, Congresso, Corte suprema), tuttavia la partita è aperta, se i democratici sapranno giocarla con dei candidati nuovi, competenti, in grado di mettere insieme l’America che vuole riconciliarsi con sé stessa e non continuare a vivere sull’orlo della guerra civile.
Non solo: il rodomontesco esercizio del potere discrezionale del presidente con i cento ordini esecutivi del primo giorno, il giorno in cui ha voluto fare “il dittatore”, come aveva dichiarato a Fox News, si scontra con le pastoie costituzionali: è il Congresso a delegare il presidente e dare via libera, i decreti possono essere impugnati a livello federale sia locale, allora interviene la magistratura fino alla Corte Suprema. Ci prepariamo a un ginepraio di contenziosi legali che potrà durare anni. E i singoli stati saranno d’accordo a dichiarare l’emergenza in tutti i confini meridionali e magari anche in quelli settentrionali visto che i primi nemici sono i paesi vicini Messico e Canada? La California si oppose nel 2017, vediamo che cosa accadrà oggi. Il presidente cripto miliardario è stato attaccato anche dal Wall Street Journal, i conflitti d’interesse di Musk stanno già creando le prime crepe nella stessa amministrazione. Insomma, la nuova stagione è già turbolenta, l’età dell’oro è lontana all’orizzonte.
Stiamo facendo esercizio di common sense e, prima di continuare, dobbiamo chiarire le basi del nostro argomentare spiegando innanzitutto (avrei dovuto farlo prima) che con ragione e volontà non mi riferisco alle facoltà in sé, ma alla loro interpretazione, all’uso che ne è stato fatto nel pensiero e nel mondo moderno. La luce della ragione e le tenebre della volontà, o viceversa, ci hanno accompagnato per oltre due secoli, contribuendo in modo determinante a radicare convinzioni profonde e a formare l’opinione delle élite e delle masse.
Da Leopardi a Nietzsche
Perché i fatti non cambiano il modo di rappresentare la realtà, tanto da rendere vana la lodevole battaglia sul loro controllo, il fact checking? Elizabeth Kolber in un saggio sul New Yorker cerca la risposta nelle ultime ricerche sul funzionamento della mente condotte dall’Università di Stanford le quali confermano quel che già si poteva intuire: “Una volta formate, le impressioni sono perseveranti” e generano quella opinione comune che per lo più spiazza il buon senso, anzi lo spaventa come diceva Alessandro Manzoni e lo costringe a nascondersi.
Quante ce ne hanno dette sul pessimismo leopardiano? Anzi, i pessimismi: quello personale, quello storico, quello cosmico. E’ la versione scolastica che ci ha accompagnato dalle medie, in alcuni casi dalle elementari (per chi come me è nato a Recanati). Non è che non abbia fondamento negli scritti del poeta, il quale è uno dei più importanti filosofi italiani, ma certo non un teorico sistematico. Il suo pensiero è sempre stato in movimento. Il poemetto “La Ginestra” pubblicato nel 1845, nove anni dopo la morte, concentra la visione si sé e del mondo con tutte le sue contraddizioni, dall’accusa contro “le magnifiche sorti e progressive” all’appello alla resistenza solidale.
Secondo un filone interpretativo che fa riferimento all’ultimo Leopardi, il testamento del poeta non è tanto la critica al romanticismo ingenuo, il quale sfocerà in una visione millenaristica della storia o, al contrario, nell’evoluzionismo darwiniano, ma è un severo e disincantato afflato umanitario: è l’ardua risposta alla natura matrigna e “al mal che ci è dato in sorte” da parte dell’animo nobile che a sollevar s’ardisce / agli occhi mortali incontra / al comun fato”, e “tutti fra sé confederati estima / gli uomini, e tutti abbraccia / con vero amor, porgendo / valida e pronta ed aspettando aita / negli alterni perigli e nelle angosce / della guerra comune”.
La sympathy di Adam Smith che possiamo assimilare alla compassione, non è molto diversa. Nell’un caso e nell’altro sono il lascito dell’Illuminismo, quello britannico con il sentimentalismo di Shaftesbury, quello francese con l’Emilio di Rousseau. Il romanticismo apre le porte al pessimismo, al primato delle passioni e della volontà, da Fichte a Nietzsche passando per Schopenhauer al quale Leopardi è stato spesso associato. Ci sono anche qui punti in comune, ma ne “Il mondo come volontà e rappresentazione” la realtà empirica si dissolve coperta dal velo di Maya. Il vero mondo appare come volontà, una forza cieca e senza obiettivi razionali, una forza che semplicemente vuole. E’ questa l’essenza di tutto ciò che esiste. E’ evidente l’opposizione all’idealismo che eleva la consapevolezza di sé a potenza logica, politica, etica. Ma se la Ragione di Hegel da totalizzante diventa metafisica, la Volontà di Schopenhauer finisce nell’ascesi vedica ben lontana dalla meditazione leopardiana.
Dalla Wille zum Leben (titolo di un famoso film di propaganda nazista, alla faccia di Schopenhauer) alla Wille zur Macht di Nietzsche il passaggio è immediato. “La parentela è indiscutibile”, scrive Giorgio Colli: “La prima si presenta come una variante della seconda, in entrambi i casi si tratta di una sostanza irrazionale che è in noi… la differenza è che Schopenhauer la rifiuta e Nietzsche l’accetta”. E ancora: “La volontà di potenza porta con sé il dolore”. L’esperienza del dolore oltre che la meditazione su di esso è un filo conduttore in Leopardi per il quale, però, il “comun fato” spinge gli uomini a confederarsi. In Nietzsche il dovere (Kant), l’utile (Spencer), la compassione (Schopenhauer e l’ultimo Leopardi), “tutti questi fondamenti dell’etica vengono sostituiti dal concetto di paura a sua volta condizionato da una struttura primordiale della società in cui la potenza è un elemento radicale”, spiega Colli. Ecco il pessimismo della volontà.
Nietzsche ha scorticato i tempi moderni e anche lui è stato spesso offuscato da convinzioni diffuse che sfuggono al fact checking. La “volontà di potenza” coincide originariamente con una spinta continua al rinnovamento, con la creatività, cioè quella tensione del desiderio che porta a cercare sempre cose nuove. E non c’è nulla di più equivoco, fin dalla sua traduzione, del concetto di superuomo; molto si deve in Italia a Julius Evola e in Germania a Elisabeth Förster-Nietzsche, la sorella che finì alla corte di Adolf Hitler. Übermensch il termine che usa il filosofo non è alla lettera super uomo, non è un Obermensch, un superiore (anche gerarchico), ma è chi va oltre l’uomo, o meglio al di là dell’ ”ultimo uomo” colui che si lascia vivere, ormai privo di spinta vitale, che si conforma al gregge, un nichilista passivo. Nietzsche si fa beffa della democrazia, della scienza, della modernità, così come della ragione convenzionale, esalta Dioniso contro Apollo, strapazza San Paolo nel suo Anticristo, sacrifica ogni sviluppo storico sull’altare di un “eterno ritorno del sempre uguale”. Però diamo a Nietzsche quel che è di Nietzsche.
Non fu il profeta del nazi-fascismo né può essere trasformato in un anticipatore del Sessantotto; anche se nella “distruzione della ragione” e nel pessimismo della volontà si possono leggere molti crimini del Novecento. Ha scritto Karl Löwith nel suo “Da Hegel a Nietzsche”: “Antagonista di Bismarck e di Wagner, Nietzsche si mosse nella cerchia della loro volontà di potenza, e persino la sua attualità nel Terzo Reich dipende dal fatto che questo fu l’erede del secolo. Coloro che preparano la via hanno sempre indicato agli altri la strada che essi stessi non percorsero”.
La confusa rivolta
L’ultima parte del secolo XX è stata segnata da un processo che aveva individuato e analizzato con grande anticipo Isaiah Berlin, pensatore liberale, ebreo inglese di origine lituana. In un suo saggio di fine anni Settanta, intitolato “Il ramoscello incurvato”, dedicato alle radici storiche e ideologiche del nazionalismo, scrive: “Quella cui stiamo assistendo è una reazione mondiale contro le dottrine centrali del razionalismo liberale del XIX secolo in sé stesse, uno sforzo confuso di tornare a una più antica moralità… Il partito del progresso, liberale o socialista, fa appello ai metodi della ragione, specialmente quelli impiegati nelle scienze naturali, in base ai quali ogni individuo razionale potrebbe verificare la verità di un principio o l’efficacia di una politica o l’affidabilità della prova sulla quale queste conclusioni sono fondate… Calculemus doveva diventare la chiave per la soluzione dei problemi sociali e personali. E’ contro tutto ciò che è cominciata una protesta in tutto il mondo… Nelle società industriali e post-industriali, la protesta è quella di individui o gruppi i cui membri non desiderano essere trascinati dal carretto del progresso scientifico interpretato come l’accumulazione di beni e servizi materiali… Nei territori poveri o ex coloniali il desiderio di essere trattati come i precedenti padroni, come esseri umani completi, spesso prende la forma di un’autoaffermazione nazionalistica. La voglia di indipendenza individuale e nazionale scaturisce dallo stesso senso di dignità umana oltraggiata… E’ la richiesta di uno spazio in cui gli uomini possano cercare di realizzare la loro natura”.
Questa è l’eredità lasciata dal Novecento. Da allora questo spazio si è via via chiuso, è diventato isolamento; la ricerca dell’identità come ha scritto Francis Fukuyama nel suo saggio “Identity”, si trasforma in tribalismo: io, la mia famiglia, i miei seguaci contro tutti gli altri al contrario della condivisione e dello scambio di identità tipico di una società aperta e pluralista. Questo è il problema emerso in primo piano nel nostro secolo XXI. Fukuyama parla di un nuovo tribalismo come fattore principale della crisi della democrazia, una politica del risentimento, risposta conservatrice alla crisi identitaria provocata dal cosmopolitismo delle élite e dalla globalizzazione. Il driver culturale, vero comune denominatore di tutti gli attacchi nazional-populisti, è la paura; torna così l’eco di Nietzsche sotto forma di paura che gli immigranti portino via più che i posti di lavoro l’identità nazionale. I “tribalisti” sentono che “il modo in cui hanno definito l’identità nazionale non è più vero. Essi pensano in realtà che l’identità nazionale sia stata minata non dagli immigrati, ma dalle élite che li sostengono e vogliono che gli immigranti entrino nei paesi occidentali. La posta è altissima, perché è la democrazia liberale in sé stessa. I partiti populisti non rappresentano una minaccia alla democrazia, molti di loro sono stati eletti dal popolo, ma rappresentano una minaccia alla democrazia liberale”.
Dalla crisi finanziaria si è usciti con un nuovo ciclo di crescita e una accelerazione senza precedenti della nuova rivoluzione tecnologica che sta generando una gigantesca transizione con enorme impatto sociale e politico. Buona parte delle contraddizioni, dei disagi, dei conflitti che stiamo vivendo ha origine proprio qui. Dal 2008 ad oggi si è diffusa la trasformazione digitale e ambientale, l’industria, i servizi, la finanza stanno costruendo un nuovo paradigma, ancora fluido, approssimativo, un work in progress. Tutto ciò ha scosso l’economia e la società, nel frattempo è arrivata la pandemia. E’ stata una catastrofe, l’abbiamo affrontata con la consapevolezza che le grandi crisi, sanitarie oltre che ambientali e tutto il resto, vanno gestite su scala mondiale e con un approccio cooperativo. Quell’incanto si è dissolto, al punto che si consuma la rivincita dei No vax in attesa della prossima pandemia. Ma per fortuna la rivoluzione scientifica non si è fermata. Hanno dipinto i vaccini a mRNA come esperimenti da dottor Frankenstein, invece hanno aperto la strada a uno nuovo trattamento del cancro. Proprio chi respinge la nuova grande trasformazione ha trovato un brodo di coltura, dei leader e delle formazioni politiche che cavalcano rabbia, scontento, ignoranza per un ampio progetto di restaurazione, un rifiuto della società aperta. Questo è lo “scontro di culture” oltre che di interessi che si sta svolgendo ora e che caratterizzerà il prossimo futuro.
Qui non è questione di ottimismo o pessimismo, ma si pone di nuovo un problema fondamentale: chi sta con chi. La democrazia americana con Trump scivolerà verso una democratura, come teme anche Fukuyama? Forse. Il presidente eletto farà tutto il possibile per aumentare il proprio potere in base a un ego gonfio come il suo pancione e a una coalizione di interessi che diventa un nuovo complesso militar-industriale. La democrazia americana e la liberal-democrazia in genere sono in difficoltà, ma la via d’uscita non è quella che porta al trionfo dell’uomo forte e dell’autocrazia. E’ vero in Russia come in Iran, è vero in una Cina la cui storia è segnata da rivolte, guerre intestine e rivoluzioni. Negli Usa così come nell’Europa occidentale o in quella orientale che l’ha da poco conquistata o riconquistata, la libertà è un bene troppo grande al quale nessun uomo può rinunciare volontariamente.
Italiani senza l’Italia
In tutto questo scenario dove sta e come sta l’Italia? Forse dovremmo dire dove stanno gli italiani, noi italiani, perché non è scontato che stiamo dove sta l’Italia intesa come le sue istituzioni, i suoi partiti, i suoi governi. La mia risposta non segue la tendenza dominante, l’Italia non è regredita, non si è impoverita, non è emarginata, non è in declino; tutto ciò è avvenuto grazie al lavoro, allo sforzo, al comportamento degli italiani nel loro complesso. Ecco perché bisogna rovesciare il motto attribuito a Massimo D’Azeglio: “Abbiamo fatto l’Italia, ora dobbiamo fare gli italiani”, diventato un altro luogo comune che racconta il Risorgimento come rivoluzione incompiuta e rappresenta nella sua semplicità la difficoltà di trasformare manzonianamente “un volgo disperso che nome non ha” in una nazione moderna.
Come tutti i luoghi comuni, ha una base di realtà, tuttavia oggi andrebbe capovolto: gli italiani ci sono, meno divisi di quel che sembra al di là delle impronte indelebili della storia e della cultura, invece va fatta o meglio ri-fatta l’Italia. Gli italiani si sono rimboccati le maniche nell’ultimo ventennio in cui sono vacillati i pilastri dell’Occidente. Gli italiani hanno lavorato pancia a terra per non perdere il loro posto nel mondo dopo l’irrompere della Cina, un dragone, anzi un elefante nella cristalleria del commercio mondiale, e ce l’hanno fatta. Siamo rimasti tra i primi dieci paesi più industrializzati, avremmo potuto venir spazzati via. L’Italia non ha fatto a sufficienza, al di là dell’emergenza, per sostenere gli italiani; avrebbe dovuto affrontare per tempo le crisi strutturali che scuotono il suo modello sul triplice terreno, economico, politico, internazionale, diventate più acute dopo il 2011 quando lo stato era arrivato alle soglie del default. Gli italiani hanno resistito alle tempeste del primo quarto di secolo con la loro unica, ma fondamentale risorsa: “fare all’ombra dei campanili cose belle che piacciono al mondo”, come ha scritto lo storico Carlo Maria Cipolla. L’economia è uscita dal tunnel pandemico con una grande spinta, il prodotto interno lordo è aumentato dell’11,7 per cento in un biennio, più di quello mondiale nel suo complesso.
La manifattura ha più imprese di quella tedesca grazie a una intensa ristrutturazione, così che la quota di aziende esportatrici, caratterizzate da più elevata produttività, è passata dal 20 al 23 per cento del totale. La dipendenza dal gas russo, pari al 40 per cento nel 2021, è stata pressoché azzerata senza nessun crollo dei consumi. La rivoluzione digitale trasforma anche i servizi. Le banche sono più solide e profittevoli. Gli italiani, dunque, sono nell’empireo dei ricchi. Ma resteranno ricchi per sempre? E’ la domanda che si è posto Pierluigi Ciocca ex alto dirigente della Banca d’Italia, storico dell’economia e uomo di sinistra. Nel suo libro intitolato appunto “Ricchi per sempre?” scrive che quella della economia italiana è una storia di successo nel lungo periodo. Lo Human development Index che, compreso tra 0 e 1, riassume reddito, salute, istruzione è salito da 0,19 nel 1870 a 0,94 superando il Regno Unito. “Il lavoro degli italiani ha prodotto tutto ciò”, scrive Ciocca. Il nostro petrolio è la capacità manifatturiera, non il turismo checché ne dica la retorica della destra spesso legata a interessi di parte. Adesso l’Italia deve tornare a una crescita stabile ben oltre l’un per cento del prodotto lordo in termini reali (cioè senza calcolare l’inflazione). E lo deve fare non solo con politiche economiche, ma con un vero e proprio cambio di paradigma.
Il modello dominante dagli anni Ottanta in poi, quello basato sull’economia sommersa e l’industria diffusa, ha riequilibrato il gigantismo, ma ha potenziato il nanismo, così da un difetto si è passati a quello opposto. La piccola e media industria organizzata in distretti produttivi il cui valore aggiunto è basato su molte “nicchie d’eccellenza”, ha consentito all’Italia di non rimanere schiacciata dai nuovi equilibri sul mercato mondiale, ma già dal primo decennio del nuovo secolo ha mostrato di non bastare. Solo pochi cespugli, per usare la terminologia del Censis, sono diventati querce robuste. La carenza di grandi gruppi industriali, soprattutto privati, competitivi non solo con i colossi cinesi, ma con le multinazionali occidentali che hanno una taglia enormemente superiore, provoca una cronica debolezza di investimenti produttivi e molto spesso un ritardo nell’innovazione, cioè nella trasmissione delle nuove tecnologie all’insieme del sistema economico.
L’Italia aveva cominciato a fare i conti con le proprie debolezze economiche e industriali già negli anni Novanta, però dopo la doppia recessione 2008-2013, quando il paese stava per fallire sulle orme della Grecia, i progressi sono stati considerevoli, ha scritto lo storico dell’economia Franco Amatori, docente alla Bocconi. Le esportazioni sono passate dal 36 a quasi il 50 per cento del fatturato, diventando il motore che ha consentito all’Italia di navigare in mezzo alle tempeste. Ma vendere all’estero non basta più, bisogna creare aziende davvero mondiali. Oggi ci sono multinazionali italiane in 175 paesi con 24 milioni di controllate, un milione e 700 mila addetti, 500 miliardi di fatturato. Fulvio Coltorti, che ha diretto per decenni l’ufficio studi della Mediobanca e ora insegna alla Cattolica, batte da tempo sul dualismo della manifattura italiana che è da una parte un punto di forza se si guarda al diffuso tessuto delle piccole e medie imprese (quasi cinque milioni con 18 milioni di addetti), dall’altra una debolezza se si considera la ritirata tutt’altro che strategica della grande industria. I piccoli producono due terzi del valore aggiunto, il resto è di imprese a partecipazione statale. Usciti di scena Fiat, Pirelli, Olivetti, Montedison, Italcementi, i grandi del primo capitalismo, restano Enel, Eni e a una certa distanza Leonardo, “la triade che costituisce il vertice delle nostre corporations”.
Non tutto è andato per il verso sbagliato. E’ ormai un altro luogo comune parlar male delle privatizzazioni. La destra è convinta che sia la più grande tragedia geoeconomica del secolo, per parafrasare Putin, e agita il mito del Britannia, lo yacht reale nel quale si mise a punto il 1° maggio del 1992, mentre la magistratura colpiva il sistema politico, la “grande svendita” dell’Italia industriale. Il Britannia, insomma, sarebbe il Titanic dell’economia. Per la sinistra è stata la resa a un mercato finanziario che ha agito senza strategia industriale. Eppure oggi le aziende pubbliche non vengono più pagate esclusivamente dai contribuenti; al contrario distribuiscono profitti allo stato e agli azionisti privati, danno più di quanto ricevono. Il pacchetto delle società quotate vale quasi 70 miliardi di euro, più o meno tutte queste imprese mostrano un nocciolo duro in mano allo stato e una maggioranza delle azioni sul mercato, comprate dai fondi d’investimento o da risparmiatori privati. Un mélange di public company e azienda di stato che ha stimolato l’efficienza e la competitività.
Il modello europeo deve cambiare, scrive il rapporto Draghi. Ciò vale anche per il modello italiano. Il neo-protezionismo americano può essere l’occasione per accelerare un processo già in atto. La globalizzazione frantumata in “placche tettoniche”, il reshoring, la concorrenza high tech, tutto questo rimescolamento in atto renderà più forte chi ha già un notevole volume di fuoco e possiede armi economiche di “distruzione tecnologica di massa”.
L’Italia è subfornitrice di componenti meccaniche alla Germania, può diventare subfornitrice di componenti per l’industria tecnologica americana o giocare di sponda, una terza via che richiede una massa di manovra finanzia, industriale e politica che per ora non c’è. Ma può anche favorire la nascita di “campioni europei” abbandonando una retorica sovranista che ormai si applica a qualsiasi attività che si svolga sul territorio nazionale. Se questo atteggiamento fosse prevalso negli ultimi dieci anni, non sarebbero nate nemmeno le “multinazionali tascabili”.
Risolvere problemi
Si è fatta strada una versione scettica del buon senso che spinge a dire: le riforme strutturali sono belle, ma quasi mai funzionano, per lo più spaventano, allarmano, spingono chiunque si senta minacciato a boicottarle o ad avversarle apertamente. Meglio andare avanti a piccoli passi, ritoccando, spuntando: le forbicine non la motosega. Curioso che poi alcuni di questi minimalisti si siano entusiasmati per le gesta del “loco” argentino. Se spegniamo i più recenti eroici furori, la loro prudenza va presa come un serio ammonimento, tuttavia anche queste convinzioni contrastano con la realtà. L’ufficio studi della Banca d’Italia nel 2020 ha pubblicato un ponderoso studio sulle riforme di struttura negli ultimi vent’anni: la liberalizzazione, la giustizia civile, gli incentivi all’innovazione (buona parte di esse sono poi confluite nel Pnrr come conditio sine qua non della sua applicazione).
Il risultato è che le riforme già realizzate hanno aumentato il prodotto lordo italiano tra i 3 e i 6 punti percentuali. E nel più lungo termine faranno crescere il potenziale produttivo del paese tra il 4 e l’8 per cento. Buona parte della robusta capacità di rispondere al dopo pandemia e di quella “resilienza” dell’economia e della società italiana della quale ora vuol portar vanto il governo di destra, risiede proprio in quel che è avvenuto allora, con governi guidati dal centrosinistra o da tecnici come Mario Monti e Mario Draghi. Continuando con il nostro refrain sull’Italia e gli italiani, potremmo dire che funzionano le riforme che sanno cogliere la spinta dal basso, dalla società civile, dall’economia reale, dal mercato per sostenere e accompagnare una transizione della quale conosciamo le caratteristiche non il risultato. Insomma la politica funziona quando parla agli italiani, quelli veri non solo quelli rappresentati dal circo mediatico-politico prevalente o dalle minoranze rumorose.
Di Italia c’è bisogno anche per dare una sistemata alla sua collocazione internazionale. Soprattutto con il nuovo scenario aperto dalla vittoria di Donald Trump. Europeismo e atlantismo, arabi e israeliani, Nord Africa e Balcani, Russia e Cina. L’Italia è apparsa spesso oscillante, incerta, tra la voglia di consenso, il desiderio di svolgere un ruolo anche al di sopra delle proprie forze concrete, la tentazione di cuocere la pagnotta in due o più forni. Tutto ciò ha indebolito non solo l’immagine, ma la consistenza e l’affidabilità dei governi. Giorgia Meloni ha compiuto una scelta atlantista, però l’Atlantico ha due sponde, una è la costa degli Stati Uniti l’altra quella della Francia. Attraversare l’oceano è diventato molto più difficile e il governo italiano torna a oscillare; l’ambizione di fare da trait-d’union è legittima, ma diventa velleitaria: quante divisioni ha l’Italia se si muove da sola?
Nel nuovo disordine mondiale qual è il nostro posto al sole? Per l’Europa vale quello che ha detto Mario Draghi: la vittoria di Trump è un enorme stimolo a cambiare. Il suo rapporto spiega come recuperare la competitività perduta a vantaggio di americani e cinesi, e come rendere più efficace la governabilità, passando dal voto all’unanimità all’uso della maggioranza rafforzata, utilizzando gli spazi che ci sono nei trattati visto che non esistono ancora le condizioni politiche per cambiarli. L’Unione andrà avanti a cerchi concentrici, quel che è accaduto con la moneta potrebbe accadere anche con la difesa, si procede con chi ci sta e, visto che ci stanno i principali paesi, almeno sulla carta, è possibile mettersi in cammino.
Per quel che riguarda il Mediterraneo, l’Italia deve assumersi un impegno di lunga portata. Questa Europa a geometria variabile richiede una divisione del lavoro, se la Germania fa la guardia all’est e la Francia con la Spagna presidia soprattutto l’Atlantico, l’Italia deve essere il perno di una strategia che coinvolga i paesi del Nord Africa e del medio oriente (se e quando si troverà una sorta di pur precario equilibrio nel Levante). Non si tratta di agire da soli, Spagna, Grecia e in parte la stessa Francia sono partner naturali. E’ una strategia che non si riduce a contenere gli immigrati, ma intende espandere sia la forza economica sia i valori europei. Il Mediterraneo mare aperto di pace e benessere è uno slogan troppo ottimista anche per me, ma fare passi in questa direzione può diventare una missione per l’Italia.
“Tutta l’attività di un paese può essere giudicata solo in rapporto al mercato internazionale”, scriveva Antonio Gramsci quando non era ancora comunista. Era apparso chiaro a chi analizzava l’Italia già cent’anni fa, in particolare tra gli economisti e i politologi liberali, oggi è quasi ovvio. Lo sanno gli italiani che continuano a viaggiare per il mondo con la loro valigia di pelle non più di cartone, ma sempre piena di campionari. Lo sanno i politici chiamati a ri-fare l’Italia? ”Chi governa a caso si ritrova alla fine a caso”, scriveva nei suoi “Ricordi” Francesco Guicciardini, il quale al primato della volontà che Machiavelli attribuiva al suo principe ideale contrapponeva il realismo della ragione.
Vivere è risolvere problemi, non saremo mai padroni fino in fondo del nostro destino, avanziamo sempre verso l’ignoto e l’imprevisto. Ma tra le macerie della storia contemporanea possiamo vedere che cambierà il lavoro, cambieranno le città, cambierà la domanda e, di conseguenza, l’offerta. Lo sguardo lungo prenderà il posto della miopia con la quale è stata guidata spesso la società; si affermano già nuovi bisogni e nuove priorità: la salute, l’ambiente, il riequilibrio delle risorse e dei fattori di produzione. E per tutto questo non esistono ricette nazionali o locali. La quarta rivoluzione industriale non è stata interrotta, al contrario subirà una fortissima accelerazione, lo vediamo già con l’espansione dell’universo digitale ben al di là dell’occidente, ben oltre i paesi ricchi. L’Europa che ora teme di essere lasciata sola c’era anche prima dell’America e non ha fatto soltanto disastri. Quanto alla Cina, per due secoli l’occidente l’ha messa sotto, adesso va tenuta a bada nelle sue velleitarie ambizioni, ma trattandola alla pari. La lotta tra la luce e le tenebre, l’ordine e il caos, mai finirà, tuttavia il treno per Armageddon non è ancora partito: sta a noi che finisca su un binario morto. Una speranza, una volontà temperata dall‘ottimismo della ragione.