Il pianista russo incanta e spiazza con un’interpretazione estrema di Bach, Schumann e Grieg. Aura sacerdotale, emozioni controllate, mille voci e colori dalla tastiera. Un viaggio musicale fuori dagli schemi
Nella nuova stagione dell’Istituzione universitaria dei concerti a Roma, quello di Pletnëv è stato uno degli eventi di punta. La sala è piena in ogni ordine di posto, pochi però i giovani ed è un peccato perché parliamo di una rassegna legata a una grande università come La Sapienza. L’impaginato sembra muoversi su uno “scontato” filo cronologico con una selezione di Preludi e Fughe dal Clavicembalo ben temperato di Bach; Kreisleriana di Schumann e nella seconda parte alcuni Pezzi lirici di Grieg. Quando protagonista è il pianista russo, non c’è nulla di scontato: siamo di fronte a uno degli interpreti più acclamati ma anche a un compositore e direttore d’orchestra molto ricercato, dotato di un pensiero articolato e capace di sfidare qualsiasi classificazione convenzionale.
Pletnëv inizia a fare musica nel momento in cui sale sul palco: il passo lentissimo, quasi insicuro; l’aura mistico-sacerdotale amplificata dall’abito total black. Si guarda intorno, fissa qualche particolare della parete curva affrescata con il murale L’Italia tra le arti e le scienze di Mario Sironi. Il suo recital è sicuramente un inno alla conoscenza, al valore della ricerca così come raccontano quelle immagini. Il concerto prende il via con un Bach granitico nel dialogo tra le voci, caratterizzate nel loro sorgere e poi quasi lasciate scorrere per sottolineare un nuovo elemento. Pletnëv non è il “pianista cecchino” che non perde una nota, come va tanto di moda oggi con interpreti che strappano applausi per una velocità digitale debordante e spesso, non sempre, un pensiero poco presente. L’unicità del russo risiede nella tecnica di attacco al tasto e di controllo del peso che gli permette una infinità millesimale di timbri.
Non sono nemmeno terminati gli applausi che la scarica di note di Kreisleriana si abbatte sul pubblico. Ed è qui che accade qualcosa di assolutamente inaspettato. Quello di Pletnëv è uno Schumann privo di qualsiasi sentimento, di qualsiasi contrasto (sembra quasi una eresia quando si parla del tedesco), algido, scarno sino all’osso. Che cos’è questo Schumann, viene da chiedersi? E’ quello di Kreisler, il personaggio creato da E. T. A. Hoffmann, un maestro di cappella strano, esaltato, spirituale ma anche demoniaco e completamente dissociato dalla realtà. Un personaggio in cui Schumann si sente descritto e che ripropone in musica. Pletnëv sfida il pubblico prendendosi la responsabilità di una lettura così estrema e riaprendo l’annoso dibattito del limite fin cui si possa spingere l’interprete nell’esecuzione. Ma questo non è un problema che lo riguarda, il pianista russo decide di spostare tutta l’attenzione sulla sua lettura, incurante di avere un riscontro, perché lui è in un’altra dimensione spazio-temporale, forse proprio quella del compositore e quindi per questo è giustificato nel suo muoversi. Prendere o lasciare, Pletnëv è così.
La seconda parte, quella con i Pezzi lirici di Grieg, continua su questa scia. Qui le dinamiche, le pennellate di suono sono infinite, varie, esaltanti, alcuni suoni raggiungono quasi il limite dell’udibile. Tutto molto bello ma puntellato qua e là di momenti di dilatazione del tempo, di perdita quasi di un appoggio, di abissi. Tutto irreale. Tutto altrove. Forse tutto costruito, solo immaginato. Alla fine del concerto i pareri sono discordanti. Il ruolo di un grande artista è anche questo: mettere in dialogo, suscitare domande a cui forse non c’è una risposta univoca.