Il problema del fine vita va affrontato ripensando totalmente la nostra cultura

Andare oltre il peso del tabù della morte significherebbe che ogni malato sapesse che esiste un diritto a morire con il sollievo dei sintomi più dolorosi La questione andrebbe risolta con un ripensamento totale della nostra tradizione troppo abituata a dimenticare il nostro destino

L’Italia è un paese così. Ci sono realtà che funzionano anche in ambiti per molti versi critici come la sanità. Situazioni in cui, invece di ripetere la solita solfa che attribuisce ogni carenza alla mancanza di fondi, si scopre invece che questa deriva anche – se non soprattutto – da carenze di tipo culturale. Per quello che vale porto ad esempio un caso personale, un caso occorsomi con la partecipazione a un convegno organizzato dagli ospedali di Modena il 16 gennaio dove, presenti tanti medici e tanti studenti di medicina, c’è stata una discussione creativa, vivace e informata in merito alla sanità, capace di superare la banalità del dibattito mediatico al quale sembriamo condannati. L’argomento era “la dignità del fine vita” partendo da una realtà concreta quale quella che si presenta oggi nella quotidianità ospedaliera, dove ormai molte persone vengono ricoverate nelle ultime fasi della loro esistenza, in attesa appunto della morte: quando cioè non possono più essere curate ma solo accompagnate lungo l’aspro percorso della fine. In realtà dal punto di vista della cura medica casi del genere costituiscono una presenza inutile e gravosa, che si potrebbe risolvere facilmente con una buona assistenza domiciliare. Ma proprio questa è una circostanza che rivela dov’è la difficoltà: si tratta del vero e proprio interdetto che nella nostra vita quotidiana circonda oggi l’esperienza della morte. Per affrontarla bisognerebbe innanzitutto essere consapevoli che la morte è parte della vita, come a Modena ha detto una relatrice: proprio ciò che invece sembriamo avere dimenticato a causa di una cultura che ha cercato di cancellare la morte dal nostro orizzonte.

E’ questo il problema di fondo affiorato in molti interventi; ma intanto, che cosa si può fare? La risposta di tipo organizzativo consiste nel potenziare la medicina palliativa, nel nostro paese ancora poco sviluppata e poco insegnata; nel considerarla una conoscenza di base necessaria anche ai medici generici, allargando la sua applicazione pure ai settori ai quali finora essa non sembrava destinata. Le cure palliative, insomma, dovrebbero iniziare prima dell’ultima fase della vita, essendo esse necessarie anche durante particolari percorsi di cura. Tutto ciò, però, richiederebbe un vero e proprio “salto” della medicina – una forte umanizzazione nel rapporto con il paziente, come appunto sono le cure suddette – al quale oggi, però, i sanitari non sono pronti, un salto che implica non solo competenze mediche, ma anche psicologiche e di ordine spirituale dal momento che in realtà le cure palliative costituiscono un accompagnamento al percorso di morte.


Sarebbe altresì necessario che ogni malato sapesse che, se è vero che non esiste un “diritto a morire”, esiste tuttavia un diritto a morire con il sollievo dei sintomi più dolorosi. Per ottenere questo risultato, però, il paziente deve essere preso in carico in tutti i suoi aspetti, e come si capisce ciò richiede una preparazione specifica del personale medico – infermieristico che oggi manca. Ma nonostante tutte le difficoltà appena dette il coraggio di affrontare a viso aperto la questione del fine vita, nel quale problemi i di organizzazione si intrecciano a tematiche esistenziali di base, lo hanno avuto un gruppo di medici – anzi, in particolare due donne medico, Rita Conigliaro e Cristina Mussini – che qui a Modena, grazie ad un’ottima organizzazione, hanno saputo affrontare e superare il problema drammatico delle liste d’attesa. E proprio su questo presupposto positivo i medici modenesi hanno potuto riflettere sulle trasformazioni che sta subendo la loro professione, e proporre alcune soluzioni, dando vita a un dibattito importante. Nel quale è emerso come il problema ospedaliero dipenda in misura significativa anche da una questione culturale: dalla paura, si potrebbe dire, di avvicinarsi troppo alla morte, dal timore di farle posto nella nostra vita quotidiana e in quella delle istituzioni sanitarie.

Il peso del tabù della morte finisce così per cadere direttamente sulle spalle dei medici palliativisti, che si trovano ad affrontare – praticamente da soli – la paura e l’angoscia del morente e quella dei suoi familiari. Ma è giusto, bisogna chiedersi, lasciare sulle spalle di una categoria di medici – tra l’altro poco numerosa anche perché non molti hanno piacere a esercitare una specialità dove tutti i pazienti sono destinati a morire – il peso della più grande questione irrisolta della nostra società secolarizzata? E potranno mai bastare dei corsi di “umanizzazione” per insegnare a dei giovani medici come accompagnare alla fine i loro pazienti, quando questi per tutta la loro esistenza questi avranno sempre soggiaciuto all’interdetto che vieta di pensare la morte come una parte della vita? Il problema del fine vita non andrebbe risolto con soluzioni come il suicidio assistito o l’eutanasia, ma più umanamente con un ripensamento totale della nostra cultura, oggi impegnata, invece, solo a dimenticare il nostro destino mortale.

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