L’incontro con Hurbinek si snoda in solo due pagine. O poco più. Sessantacinque righe in tutto. Poi di lui non c’è più traccia. Ora una settimana intera sarà dedicata all’eco delle parole che non riuscì a trovare per esprimere l’orrore che lo circondava
“Hurbinek morí ai primi giorni del marzo 1945, libero ma non redento. Nulla resta di lui: egli testimonia attraverso queste mie parole”. Siamo dentro al secondo capitolo de “La tregua“. Sono trascorsi pochi giorni dalla liberazione di Auschwitz. E’ un brano difficile da dimenticare. Torna in superficie e ti rimbalza dentro, anche quando meno te lo aspetti. Tanto è potente. Sembrano versi di una poesia, versi concisi e sanguinosi, buoni per essere scolpiti sulle lapidi, come lo sono quelli che Primo Levi scrisse dopo il suo ritorno.
L’incontro con Hurbinek si snoda in solo due pagine. O poco più. Sessantacinque righe in tutto. Poi di lui non c’è più traccia. Ricompare brevemente nei Sommersi e i salvati, l’ultima opera scritta da Levi, come esempio di quel laboratorio scientifico che fu Auschwitz, dove “era dato assistere a situazioni e comportamenti mai visti né prima, né dopo, né altrove”. E dove Hurbinek rappresenta “un caso estremo di comunicazione necessaria e mancata: quello del bambino […] a cui nessuno aveva insegnato a parlare, e che di parlare provava un bisogno intenso, espresso da tutto il suo povero corpo”.
Sono pagine vertiginose: soltanto uno scrittore di quel livello poteva riuscire in un’impresa simile, descrivere “un nulla, un figlio della morte, un figlio di Auschwitz” senza cadere nella trappola del sentimentalismo. Anzi sopprimendolo, ben sapendo che per suscitarlo nel lettore è necessario accuratamente annullarlo sulla pagina.
Hurbinek, che “non aveva mai visto un albero”, è un bambino di tre anni, di genitori ignoti, nato quasi certamente da un madre deceduta subito dopo il parto nel campo di Auschwitz, che non sapeva pronunciare parola, ma che parlava con lo sguardo, “selvaggio e umano”, “maturo e giudice”, “che nessuno fra noi sapeva sostenere, tanto era carico di forza e di pena”. Hurbinek è “figlio” di Levi, così come è “figlio” di Henek, il “buon Kapo”, il quindicenne ragazzo ungherese che lo accudisce come sa fare una madre e gli siede accanto e gli parla “con voce lenta e paziente”.
Quando abbiamo deciso di intraprendere questa avventura, di dedicare al Giorno della Memoria non un giorno (di commemorazione) ma un’intera settimana (di riflessione), non abbiamo avuto dubbi che questa rassegna si sarebbe chiamata Le parole di Hurbinek. L’eco delle parole che non riuscì a trovare per esprimere l’orrore che lo circondava, risuona nelle iniziative a cui questo progetto dà voce. Ben sapendo che sono parole che non riguardano solo il passato. E ben sapendo che Hurbinek è un bambino curioso ed esigente che vuole vivere nel presente, ma che al tempo stesso, come tutti i bambini, ama la “leggerezza”, ama conoscere il mondo anche attraverso i linguaggi della poesia, della musica e del teatro.
A ottant’anni di distanza, le incerte e improbabili parole verso le quali Levi e compagni tendevano di notte l’orecchio nello sforzo di carpirne il senso, non sono più suoni disarticolati e privi di significato. I “mass-klo”, i “matisklo”, i “mass-kla”, sono diventate parole dure e spietate, le uniche parole forse pronunciate da Hurbinek. Come lo sono “razza” e “razzismo”, le parole che Hurbinek ci ha consegnato quest’anno e sulle quali proveremo a riflettere.
Massimo Bucciantini, ideatore di Le parole di Hurbinek.
A Pistoia dal 19 al 27 gennaio 2025 una rassegna di riflessioni, quest’anno a partire dalla parola “razza”. Lezioni civili, musica, teatro, laboratori scolastici. La rassegna chiude il 27 febbraio al Piccolo Teatro Mauro Bolognini con “Come siamo arrivati fin qui?”. Dialogo con Paola Caridi, Gad Lerner, Stevano Levi Della Torre, Arturo Marzano, Eliana Principi e Massimo Bucciantini.