Tre giorni che sembrano tre anni: è la Trump fatigue

La Trump fatigue, rilevano gli analisti, impedisce quel rigetto violento, quelle manifestazioni, quei toni rombanti di nove anni fa. Siamo tutti stanchi.

A ottobre, che sembra dieci anni fa, il termine “Trump fatigue” indicava tutt’un’altra cosa. Ci si illudeva: con wishful thinking o pia illusione, se Biden aveva rinunciato alla corsa alla Casa Bianca, improvvisamente anche l’arancione suo contendente appariva stanco, spompato, bollito. Annullava incontri e comizi, improvvisamente era troppo vecchio pure lui. Poi le cose sono andate come sappiamo, una pallottola è stata sparata e deviata (dal Signore o meno non sapremo mai), forse Trump ha preso sostanze tipo quelle di Berlusconi da Santoro nel 2013, e tutto si è capovolto. Adesso la Trump fatigue ce l’abbiamo noi. Per descriverla ci sono i meme, “che anno è stato, il 2025!”, “ma siamo ancora a gennaio”, insomma Trump è diventato il mercoledì della settimana, quello di “what a week”, ma è appunto solo un eterno mercoledì. Nell’eterno mercoledì trumpiano, il sabato fascista o autistico che ci possiamo permettere, c’è quel leggero non so chè che ci fa sentire distrutti già a prima mattina. Che avrà combinato oggi? Il mondo continuerà? Ha senso pagare tutti questi contributi se questo tra un anno fa esplodere il mondo?



Comunque, è cominciato da quattro giorni e siamo già tutti devastati. Un po’ per la raffica di annunci, alcuni assurdi, altri solo terribili, e come sempre ci si chiede: ci sarà del metodo, oppure questo geniale-fallimentare imprenditore ha capito che come M di Mussolini ma con molti più capelli, e senza guardare in camera, “è l’uomo del suo tempo”, tempo di improvvisazione e velocità, di fantasismo e ridotte capacità mentali, e male che vada sarà un meme? Un po’ perché oggi governare vuol dire fare casino come e più che che all’opposizione. Comunque, la “Trump fatigue” è già qui, ha già la sua definizione nel paese, gli Stati Uniti, che sa dare un nome a tutto e di cui non capiamo più niente. La Trump fatigue, rilevano gli analisti, impedisce quel rigetto violento, quelle manifestazioni, quei toni rombanti di nove anni fa. Siamo tutti stanchi. Nove anni fa (c’eravamo, eravamo lì, signora mia) in tutte le grandi città americane sfilavano cortei per le donne, per gli immigrati, per i neri, insomma per qualunque cosa che non fosse Trump. Oggi, niente. Ci lamentiamo dei ricconi riposizionati ma anche noi al massimo ci chiediamo se davvero Ellen DeGeneres lascerà per sempre gli Stati Uniti come aveva annunciato (certo, Musk se lo ritrova pure lì, e con la Brexit poi…). Forse Dio sta davvero con Trump (e allora si spiega anche l’incendio apocalittico nella parte d’America più liberal), forse Trump in un certo senso non ha ricominciato: non era mai finito. Non solo per i complottardi oggi graziati per cui aveva vinto anche nel 2020, e quindi era già presidente.



Anche per la contronarrazione debole di un debilitato Biden e di una raccogliticcia Harris, Trump è sempre stato con noi. E dunque oggi, a quattro giorni dall’insediamento, ci paiono tre anni, o trenta. A New York, a Washington Square, luogo simbolo delle proteste anti trump del 2016, oggi non c’è anima viva di protestatari. Sonia Ossorio, executive director della National Organization for Women NYC, ha detto al Guardian che “le persone si sentono svuotate. Servirà tempo e riflessione collettiva per ritrovarsi”. Anche i media cosiddetti di sinistra registrano un calo di attenzione, come se i buoni democratici abbiano deciso di entrare in un lungo letargo.Un sondaggio Cnn in dicembre mostrava che dopo le elezioni di novembre 7 elettori democratici su 10 non avevano più voglia di seguire la politica in tv. Msnbc, emittente progressista, registrava invece un calo degli ascolti del 54 per cento rispetto al prima. Vogliamo insomma un coma indotto per risvegliarci tra quattro anni. Qualcuno cerca pure di sfruttare l’occasione per fare soldi: tipo quel servizio di navi che offre una crociera lunga abbastanza per tornare quando Trump avrà finito il suo lavoro (magari navigando nell’ex Golfo del Messico ora Golfo d’America). C’è sia la versione breve, due anni, per tornare in tempo per le elezioni di midterm sia la soluzione completa (“Four-Year Skip Forward”). Per quest’ultima, il costo è di 160 mila dollari. Già, ma cosa si troverà al ritorno? Se il trumpismo diventerà ereditario, ci sono un botto di figli e generi e nuore pronte (ma c’è già chi pensa al dinoccolato Barron per il 2044, quando avrà superato la soglia dei 35 anni di età per essere presidenziabile.



Che nostalgia insomma per quelle epoche anche repubblicane ma non concitate, non diciamo la fine della storia ma almeno della cronaca; gli anni tutto sommato tranquilli di Obama no-drama, o gli scandali erotici di Clinton. Ma non era male nanche Bush padre, o figlio, che all’occasione scatenavano guerre abbastanza inutili ed erano considerati da molti come degli scialbi e/o mentecatti texani, ma oggi vengono ricordati invece unanimemente come statisti appena sotto Churchill.



Non c’era però all’epoca il ciclo delle notizie forsennato, non c’erano soprattutto i social, non eravamo tutti in modalità annuncio-scandalo-retweet-meme che ci sta friggendo i neuroni. Anche le distanze sembrano azzerate. Oggi Musk un giorno sta in Florida e l’altro a Roma. Meloni pure, ma al contrario (sono anni gloriosi per i voli privati). L’uomo di Musk commenta Trump, stando però a Torpignattara. E’ un grande qui ed ora globale. Ma che anno però è stato questo 2025!



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  • Michele Masneri
  • Michele Masneri (1974) è nato a Brescia e vive prevalentemente a Roma. Scrive di cultura, design e altro sul Foglio. I suoi ultimi libri sono “Steve Jobs non abita più qui”, una raccolta di reportage dalla Silicon Valley e dalla California nell’èra Trump (Adelphi, 2020) e il saggio-biografia “Stile Alberto”, attorno alla figura di Alberto Arbasino, per Quodlibet (2021).

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