Sinner torna in finale agli Australian Open e porta il tennis in una nuova dimensione

Jannik ha la capacità di far andare fuori giri qualsiasi avversario ed è sempre lui a comandare. Contro Zverev può centrare il suo terzo major

Soltanto l’outfit non gli ha reso giustizia. Quel giallo pallido e un po’ sbiadito sarebbe adatto forse al numero 40 del mondo, non al numero uno. Per il resto Sinner è stato Sinner: impeccabile, concreto, al posto giusto nel momento giusto, sempre. Due set persi in sei partite. L’ultima sconfitta dell’azzurro risale al 2 ottobre scorso (la finale del China Open contro Carlos Alcaraz). Sono passati quasi quattro mesi e non è che non si sia giocato. Ogni colpo uno schiaffo, difesa solo se strettamente necessario, l’obiettivo è far andare fuori di giri l’avversario, togliergli tempo, farlo ansimare.

Casper Ruud un giorno ha trovato le parole giuste: “Jannik? È molto semplice in realtà. Jannik non ti fa respirare”. Il primo set della semifinale degli Australian Open contro Ben Shelton è stato una specie di manifesto di stile, Sinner way of win. È come se la testa di serie numero uno avesse preso per mano il suo avversario di giornata invitandolo a mettere in mostra tutto il repertorio, The best of Ben. Tutto molto bello, Good job man, veniva voglia di gridare all’americano, che ha dato grandi segnali di miglioramento sotto gli occhi attenti e orgogliosi di papà Bryan, ex tennista anche lui. Il problema di Shelton, e di tutti gli altri in realtà, è che al massimo, se proprio sei impeccabile, Sinner ti accompagna fino al 6 pari. Poi sono tutti fatti tuoi. E il tie-break come finisce? 7 a 2 per l’italiano, con Shelton sudato marcio che non sa più cosa inventarsi e Sinner che al contrario ha trovato ritmo e fiducia, (le statistiche sul settimo gioco sono impressionanti: 24 successi su 27).

Senza troppi giri di parole, Alex Zverev, la testa di serie numero 2 e futuro avversario di Jannik Sinner in finale, lo aveva predetto. Alla fine del suo match contro Djokovic (durato solo un set di 82 minuti e terminato con il ritiro del serbo), quando gli è stato chiesto un pronostico sull’altra semifinale il tedesco ha risposto: “Ben servirà a 240 chilometri orari, Jannik risponderà come se si trattasse di farfalle”. È accaduto esattamente questo. Le risposte dell’azzurro sono state più micidiali dei servizi di Shelton, dritti e rovesci che miravano esattamente al corpo dell’avversario impedendogli di scansarsi e di trovare la posizione per cominciare lo scambio. Con la vittoria in semifinale, la testa di serie numero uno conquista il suo tredicesimo successo consecutivo negli Slam, il ventesimo se si considerano gli hard courts (Melbourne e New York). L’azzurro sta facendo terra bruciata del tennis conosciuto finora.

La generazione nata negli anni Novanta (Zverev escluso) sembra essere irrimediabilmente esausta. Alle prime armi ha dovuto affrontare i Big 3 e, prima ancora di poter rifiatare e prendersi il palcoscenico almeno per un poco, si è trovata a dover affrontare i nuovi mostri, la Sincaraz, l’evoluzione del loro modo di concepire il gioco, un’evoluzione che non li contempla, un’evoluzione di cui loro non riescono a tenere il passo. Tsitsipas, Medvedev, Rublev, Ruud: prima troppo giovani, ora troppo vecchi. Sono state dignitosissime comparse che hanno avuto il compito di far brillare ancora di più gli altri, dove gli altri si riducono a due persone soltanto.

Il tennis ha scoperto un nuovo pianeta, gli unici in grado di sopravvivere sono Sinner e Alcaraz. A tutti gli altri dopo un set manca l’ossigeno. Per chiedere conferma citofonare a De Minaur. Per l’australiano 11 match e 11 sconfitte contro l’azzurro. Qualcuno lo ha preso in giro sui social, lui, sempre sui social ha risposto, in sintesi: “Giocaci tu”. Con Sinner non esiste un piano B. L’impressione è che sia sempre lui a comandare e l’unico piano possibile è quello di rimanere in piedi senza farsi troppo male.

Ci sarebbe Carlos Alcaraz, l’unico che viaggia nella stessa direzione e alla stessa velocità del numero uno al mondo. Mentre Sinner però è sempre presente quando deve (e anche se lo fa sembrare tale, non c’è niente di normale in questa costanza da vecchio saggio), non spreca, non ride per non disperdere energie, non cerca lo show a tutti i costi, il suo alter ego naturale a volte si perde, ha il talento e la fiducia per credere che prima o poi vincerà tutto ciò che c’è da vincere e quindi niente panico e niente compromessi. Arte per l’arte. L’antitesi perfetta di Sinner, puro realismo. Uno è in finale agli Australian Open per il secondo anno consecutivo, l’altro è stato sconfitto ai quarti di finale da un Novak Djokovic versione stratega e versione forever young. (Forse per il serbo quella è stata la vittoria che ha dato senso al torneo e al suo ritorno, sapere di poter vincere, a quasi 38 anni, contro almeno uno dei nuovi mostri per lui vale il prezzo di un lieve infortunio dato che poi, in semifinale contro Zverev, è stato costretto ad alzare bandiera bianca, seminando qualche dubbio sul futuro: “Non so se giocherò ancora in Australia”, ha annunciato in conferenza stampa. Poi però ha aggiunto: “Continuerò a lottare per vincere altri Slam”).

Il pericolo, guardando giocare questo ragazzo di 23 anni, è ritenere che per lui tutto sia ordinaria amministrazione, ogni vittoria scontata, il back to back la cosa più normale del mondo, come se per lui non ci fosse alcuno sforzo anche in un percorso non proprio accidentato. Eppure a Melbourne di cose ne sono successe che avrebbero potuto farlo vacillare. Lo abbiamo visto letteralmente tremare in campo contro Holger Rune, abbiamo scoperto che a fine stagione Darren Cahill smetterà di seguirlo, abbiamo appreso che il 16 e 17 aprile davanti al Tas di Losanna si terrà l’udienza in cui si deciderà se l’azzurro sarà squalificato per doping, la Wada ha annunciato che non farà ricorso contro Iga Swiatek, ritenendo, al contrario di quanto successo con Sinner, plausibili le sue motivazioni. Sono piccoli terremoti che Sinner sta attraversando da solo con il suo team che adesso per festeggiare si stringe in un abbraccio, e tutto il mondo fuori. La seconda finale consecutiva agli Australian Open. Non c’è niente di scontato, nemmeno per chi viaggia a una nuova dimensione.

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