Negli ultimi anni gli investimenti nell’energia atomica sono aumentati del 50% e la capacità installata raddoppierà entro il 2050. La causa di questa rinascita è la decarbonizzazione, il protagonista assoluto è la Cina. L’Europa rischia di restare indietro
L’energia nucleare ha un grande passato dietro le spalle: ha anche un futuro davanti? È una domanda importante per l’Italia, visto che il ministro dell’Ambiente Gilberto Pichetto Fratin ha confermato l’intenzione del nostro paese di tornare a usare l’atomo. La posizione del governo trova conforto nel rapporto appena pubblicato dall’Agenzia internazionale dell’energia (Aie). La storia di questa tecnologia è lunga e complessa: la fase di massima espansione coincide con gli anni Settanta e Ottanta, quando gli investimenti erano motivati soprattutto dagli effetti (psicologici e reali) delle crisi energetiche e dalla ricerca di una tecnologia affidabile per la generazione di energia elettrica.
Le caratteristiche degli impianti atomici, il cui costo è dominato dal finanziamento dell’investimento iniziale, hanno fatto apparire il rischio di investimento insostenibile di fronte alla volatilità e imprevedibilità dei prezzi dell’energia elettrica. Nonostante il declino, che si è intensificato dopo l’incidente di Fukushima nel 2011, il nucleare è, dopo l’idroelettrico, la seconda fonte di energia sicura tra quelle a basse emissioni, rappresentando quasi il 10% della produzione elettrica globale (20% più dell’eolico e 70% in più del fotovoltaico). Adesso però il nucleare è tornato a crescere: dopo una lunga stagnazione, la capacità installata dovrebbe più che raddoppiare – passando dagli attuali circa 400 GW installati a 874 GW nel 2050 – sulla base degli impegni assunti dai paesi nel contesto dei negoziati climatici.
Dal 2020, in tre anni gli investimenti annuali nel nucleare sono aumentati del 50% superando i 60 miliardi di dollari, scrive l’Aie. Questa crescita ha una causa e un protagonista: la causa è il cambiamento climatico; il protagonista è la Cina, che dovrebbe arrivare a circa 277 GW installati da qui al 2050. L’esigenza di decarbonizzare l’economia e di elettrificare gli usi finali comporta l’aumento della domanda attesa di energia elettrica. Gran parte del fabbisogno sarà probabilmente soddisfatto dalle fonti rinnovabili, soprattutto se lo sviluppo delle tecnologie per l’accumulo dell’energia manterrà le promesse in termini di miglioramento prestazionale e riduzione dei costi. Ma c’è un pezzo del servizio che richiede comunque la disponibilità di fonti decarbonizzate di energia elettrica, capaci di erogare potenza continuativamente nel tempo e in modo prevedibile e programmabile: al momento, lo si può fare solo abbattendo le emissioni degli impianti convenzionali (attraverso la cattura e lo stoccaggio della CO2) oppure, appunto, col nucleare.
Che questo sia un fenomeno prevalentemente in corso nei paesi emergenti (su 52 reattori in costruzione nel mondo, 25 sono di tecnologia cinese e 23 russa) non significa che anche in occidente non ci si debba porre il problema. Infatti, l’attuale flotta nucleare – che rappresenta ancora la principale fonte di energia elettrica nell’Unione europea, con oltre il 20% della generazione complessiva – ha un’età avanzata (in media 36 anni, circa il doppio dei paesi emergenti). Ciò suscita la domanda su come rimpiazzare questi impianti man mano che saranno dismessi. Un interrogativo che riguarda anche i paesi che oggi non hanno questa fonte, ma che pure devono perseguire la decarbonizzazione o che (come l’Italia) ne sono forti importatori e hanno una importante componente manifatturiera. Non è un caso se sono proprio le industrie energivore a guardare con interesse in questa direzione: lo testimonia lo studio di fattibilità di Federacciai sulla possibilità di partecipare a iniziative nucleari oltreconfine in cambio di contratti di fornitura a lungo termine.
Si possono coniugare le ragioni dell’ambiente con quelle del mercato, che finora ha bocciato il nucleare? Secondo l’Aie forse sì, grazie al progresso tecnologico e ai cosiddetti Small modular reactors (Smr). Diversamente da quelli di più grandi dimensioni, questi vengono realizzati in fabbrica (anziché in sito) e trasportati in moduli. Quindi, è possibile cercare economie di scala non attraverso il gigantismo del singolo reattore, che ne complica l’installazione e fa moltiplicare i costi, ma attraverso la serialità della produzione. Anche assumendo un costo unitario analogo ai reattori tradizionali, ciò comporta un minore assorbimento di capitale, oneri finanziari inferiori e soprattutto tempi di realizzazione più contenuti. Secondo l’Aie, il tempo di ritorno sull’investimento può ridursi di almeno dieci anni rispetto agli attuali 20-30 anni. Ecco perché questa tecnologia viene oggi finanziata soprattutto, negli Stati Uniti, da clienti come le Big Tech, affamati di energia a zero emissioni per i loro data center.
Nelle condizioni attuali, secondo l’Aie, la capacità totale degli Smr arriverà a 40 GW nel 2050. Ma le potenzialità sono superiori. In uno scenario con policy favorevoli e con una riduzione dei costi nei prossimi 15 anni, secondo l’Aie si può arrivare anche a 190 GW nel 2050. Il nucleare è cruciale per minimizzare i costi della transizione: lo sviluppo di reattori più performanti ed economici è dunque uno dei fattori da cui dipenderà la fattibilità della strada verso net zero. E inoltre è un’altra tecnologia in cui l’occidente, ma soprattutto l’Europa, rischia di restare indietro rispetto alla Cina.