Contro i tacchini del trumpismo

Davos, il commercio, la sovranità europea. Gli interessi dei trumpiani non sono compatibili con quelli dei follower italiani. Perché Giorgia Meloni non potrà essere il “cavallo di Troia dell’America trumpiana” (Monti dixit)

Tacchini o sogliole? Ieri mattina, a Radio 24, il senatore a vita Mario Monti, ex presidente del Consiglio, ha dato voce in modo esplicito a quella che è una preoccupazione diffusa intorno al rapporto che potrà instaurarsi in futuro tra Donald Trump e Giorgia Meloni. Monti sostiene che vi sia il rischio concreto che Meloni possa diventare il “cavallo di Troia dell’America trumpiana” in Europa, trasformandosi non in una cerniera tra Europa e Stati Uniti ma “in una lama separatrice”. L’affermazione di Monti merita di essere presa sul serio, il rischio esiste, ma quello che si può dire è che, al netto della retorica, l’inerzia della politica ci dice che la direzione di marcia che l’Italia di Meloni è destinata a imboccare per fronteggiare la stagione trumpiana, direzione in parte già imboccata, non può che essere diametralmente opposta, del tutto diversa, a meno di non voler entrare nella stagione infausta del tacchino che con entusiasmo sospetto si avvicina con allegria al giorno del ringraziamento. Il tacchino, in questo caso, è l’Italia, il giorno del ringraziamento in questo caso è l’America, e le coordinate del conflitto inevitabile che vi sarà tra gli Stati Uniti e l’Italia sono state ricordate ieri con forza dal presidente americano a Davos. “L’Europa ci ha trattato molto male, farò qualcosa in merito al nostro deficit commerciale con l’Ue”. E ancora: “Se non produrrete in America, dovrete pagare un dazio di importi diversi, una tariffa che indirizzerà centinaia di miliardi di dollari, e persino trilioni di dollari, nel nostro Tesoro per rafforzare la nostra economia”. L’Italia è, come noto, dopo la Germania e l’Irlanda, il paese europeo che vanta il maggior avanzo commerciale con l’America (43 miliardi di euro). E quando Trump parla di dazi in Europa, al centro dei suoi pensieri c’è anche l’Italia della sua “fantastic woman”. E per questo non stupisce che tra le poche critiche rivolte esplicitamente da Meloni in questi giorni all’Amministrazione trumpiana vi sia proprio il tema del protezionismo.

“Chiaramente i dazi per noi sarebbero un problema”, ha detto Meloni il 9 gennaio alla conferenza stampa di inizio anno (secondo l’Ice, l’Agenzia per la promozione all’estero e l’internazionalizzazione delle imprese italiane, l’export italiano, che nel 2024 ha toccato quota 626 miliardi di euro, vale un terzo del pil, e più l’export è esposto ai dazi e più lo sarà anche il nostro pil). Lo stesso discorso si potrebbe fare anche su altre due partite importanti che riguardano la difesa dell’Europa dalla minaccia putiniana e la difesa dell’Europa dalla minaccia estremista.

Nel primo caso, non ci vuole molto a capire che l’Italia sia uno dei paesi più esposti a livello europeo sul tema delle spese per la Difesa (tra i paesi dell’Unione europea l’Italia è quello che spende meno, seguito solo dalla Spagna, lontano dal target del 2 per cento del pil previsto dalla Nato: siamo intorno all’1,5 per cento del pil). E non ci vuole molto a capire, ancora, che dover spendere di più per scongiurare il disimpegno americano in Europa significa, stanti le regole attuali, dover sottrarre risorse ad altri dossier, particolare che forse sfugge ai tacchini trumpiani italiani che esultano per l’arrivo di Trump (il ministro Guido Crosetto stima in circa 18 miliardi di euro l’aumento della spesa nella Difesa che potrebbe riguardare l’Italia già nel prossimo anno: un punto di pil).

Nel secondo caso, invece, non ci vuole molto a capire, anche qui, che un paese come l’Italia, che ha un disperato bisogno di avere un’Europa più solidale sia sul fronte dei migranti (redistribuzione in Europa), sia sul fronte economico (debito sovrano), sia sul fronte del Pnrr (debito comune), ha la necessità di non soffiare sullo stesso fuoco estremista su cui soffia la Decima Musk in Europa (AfD & Co.) perché l’affermazione dell’estrema destra in giro per il continente renderebbe l’Europa più chiusa e inevitabilmente meno disposta a essere solidale con i paesi che ne hanno più bisogno.

Fino a oggi, l’approccio scelto da Meloni rispetto a Trump sembra essere improntato poco alla strategia del tacchino, in modalità giorno del ringraziamento, e molto alla strategia della sogliola, in modalità cioè mimetizzazione sotto la sabbia per aspettare di capire quanto il trumpismo possa essere pericoloso per l’Italia. E forse ha ragione chi sostiene che il rapporto fra Trump e Meloni, alla lunga, non potrà che correre su due direttrici diverse.

Da un lato vi è la dimensione per così dire valoriale, la stessa a cui ha fatto riferimento ieri a Davos il presidente argentino Javier Milei, che è una dimensione da cui Meloni non avrà alcun interesse a distinguersi: lotta feroce contro il wokismo e battaglia forsennata contro l’immigrazione illegale.

Dall’altro lato, invece, vi è la dimensione economica, quella all’interno della quale sarà interesse di Meloni distinguersi con forza: commercio, difesa, esportazioni. “I leader europei – ha scritto ieri il Financial Times con maggiore ottimismo rispetto a Mario Monti – contano su Meloni per convincere il presidente degli Stati Uniti a frenare la sua minaccia di colpire l’Ue con dazi per costringerla a spendere di più per la difesa e l’energia americana”.

I primi passi dell’Italia sono incoraggianti (non è un dettaglio che l’Italia abbia appena rinnovato per un anno l’invio delle armi a Kyiv, non è un dettaglio che l’Italia sostenga la stessa presidente della Commissione europea, Ursula von der Leyen, che due giorni fa a Davos ha detto che in Europa, rispetto alle sfide poste da Trump, “saremo pragmatici, ma resteremo sempre fedeli ai nostri princìpi” e che in Europa “dovremo lavorare insieme per evitare una corsa globale al ribasso, perché non è nell’interesse di nessuno rompere i legami nell’economia globale”). Ma per evitare di entrare in modalità tacchino per i sovranisti italiani sarà necessario immergersi in un bagno di realtà e rendersi conto una volta per tutte quanto gli interessi dei sovranisti che si trovano al di fuori dal proprio paese non siano mai compatibili con quelli dei follower sparpagliati in giro per il mondo. Il trumpismo in America è doloroso ma spiegabile. Quello degli italiani è spiegabile solo con la modalità tacchino.

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  • Claudio Cerasa
    Direttore
  • Nasce a Palermo nel 1982, vive a Roma da parecchio tempo, lavora al Foglio dal 2005 e da gennaio 2015 è direttore. Ha scritto qualche libro (“Le catene della destra” e “Le catene della sinistra”, con Rizzoli, “Io non posso tacere”, con Einaudi, “Tra l’asino e il cane. Conversazione sull’Italia”, con Rizzoli, “La Presa di Roma”, con Rizzoli, e “Ho visto l’uomo nero”, con Castelvecchi), è su Twitter. E’ interista, ma soprattutto palermitano. Va pazzo per i Green Day, gli Strokes, i Killers, i tortini al cioccolato e le ostriche ghiacciate. Due figli.

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