La ridicola polemica degli “oligarchi tech” che minacciano il mondo

Bisogna difendere la democrazia liberale da Trump con le battaglie giuste: non si capisce per quale ragione debba essere considerata come uno scandalo la presenza alla cerimonia di insediamento dei leader delle Big Tech

Ci sono ottime ragioni per essere preoccupati di fronte alla trasformazione del complottismo modello 6 gennaio nella nuova ragion di stato della democrazia più importante del mondo. Ma tra i segnali necessari da mettere a fuoco per monitorare la minaccia ai valori non negoziabili di una democrazia liberale non si capisce per quale ragione debba essere considerata come uno scandalo la presenza alla cerimonia di insediamento, accanto al presidente degli Stati Uniti d’America, dei leader delle Big Tech. Con Trump, lo avete visto, lunedì c’erano Mark Zuckerberg di Meta, Elon Musk di Tesla e X, Shou Zi Chew di TikTok, Sam Altman di OpenAI, Tim Cook di Apple, Dara Khosrowshahi di Uber e Jeff Bezos di Amazon.

Se la presenza dei giganti della tecnologia ha indignato per ragioni legate all’opportunità di partecipare alle cerimonie di insediamento di un presidente, finanziandole, la critica non è solida: nel 2021 molte aziende tecnologiche hanno celebrato la neopresidenza Biden facendo importanti donazioni al comitato inaugurale dell’ex presidente (fra i tanti vi erano Apple, Amazon, Microsoft). Se la presenza dei giganti della tecnologia ha indignato per ragioni legate all’opportunità di un imprenditore di legarsi in modo così palese a un presidente degli Stati Uniti bisognerebbe ricordare quanti abbracci non solo virtuali ricevette Biden nel 2021 dopo il suo insediamento (non ultima una lettera sperticata di elogi vergata da Cook nel gennaio del 2021). Se la presenza dei giganti della tecnologia ha indignato perché vi sarebbe un qualche elemento inquietante nel vedere alcuni fra i più grandi capitalisti del mondo accanto al presidente americano ci si può sdegnare perché quel presidente non è di sinistra, legittimo, ma non ci si può sdegnare per quella che è una prassi consolidata: vedere aziende che cercano di stabilire e mantenere relazioni con le amministrazioni governative per influenzare le politiche che possono avere un impatto diretto sulle loro operazioni.

In alcuni casi l’avvicinamento a Trump da parte di alcuni tra i grandi delle Big Tech è stato traumatico (Bezos, che ha impedito al giornale di cui è editore di endorsare Kamala Harris, arrivò a denunciare la prima Amministrazione Trump, per pratiche considerate sleali nei confronti di Amazon, e lo stesso Mark Zuckerberg, in campagna elettorale, deve aver preso sul serio il desiderio di Trump di mandarlo in prigione, per essere stato agli occhi di Trump uno degli organizzatori del mai esistito complotto del 2020 contro Trump). Ma più in generale, per così dire, il rapporto tra Trump e le Big Tech è da studiare più che da demonizzare perché ci dice qualcosa di interessante sull’America del passato e anche su quella del futuro. Se il rapporto fra le Big Tech e Trump dovesse contribuire a bilanciare l’agenda anti capitalista e ostile alle multinazionali portata avanti da J. D. Vance, il vice di Trump, sarebbe davvero un male? Se il rapporto tra le Big Tech e Trump, dove le Big Tech hanno molto da perdere da una politica generalizzata di dazi, dovesse contribuire a raffreddare gli istinti protezionistici anti globalizzazione dell’Amministrazione trumpiana sarebbe davvero un male?

Se il rapporto tra le Big Tech e Trump dovesse aiutare a controbilanciare il potere crescente della Cina in ambito tecnologico, per esempio sull’intelligenza artificiale, evitando di fare dello smembramento dei grandi della tecnologia un diktat di stato, sarebbe davvero un male? Se il rafforzamento dei monopoli globali americani dovesse spingere le classi dirigenti europee a dedicare alla crescita e al consolidamento dei campioni tecnologici europei un’attenzione non inferiore a quella dedicata alla regolamentazione dei campioni tecnologici mondiali sarebbe davvero un male? Un Trump che scommette sui complottisti fa paura. Un Trump che scommette sui capitalisti ne fa un po’ meno. E per difendere la democrazia liberale da una minaccia di nome Trump vale la pena scegliere le battaglie giuste non quelle ridicole e populiste contro i presunti oligarchi che minacciano il mondo.

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  • Claudio Cerasa
    Direttore
  • Nasce a Palermo nel 1982, vive a Roma da parecchio tempo, lavora al Foglio dal 2005 e da gennaio 2015 è direttore. Ha scritto qualche libro (“Le catene della destra” e “Le catene della sinistra”, con Rizzoli, “Io non posso tacere”, con Einaudi, “Tra l’asino e il cane. Conversazione sull’Italia”, con Rizzoli, “La Presa di Roma”, con Rizzoli, e “Ho visto l’uomo nero”, con Castelvecchi), è su Twitter. E’ interista, ma soprattutto palermitano. Va pazzo per i Green Day, gli Strokes, i Killers, i tortini al cioccolato e le ostriche ghiacciate. Due figli.

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