Dall’uomo di Davos all’oligarca tech, andata e ritorno (con intoppo)

Ben Smith, uno dei massimi esperti del mondo mediatico americano, dice che l’uomo di Davos “era focalizzato sul multilateralismo, sulle istituzioni globali e sulle regole”, mentre i nuovi leader tecnologici “sono unilaterali, come lo sono i loro leader preferiti”

Nel libro “Davos Man”, Peter Goodman racconta Jeff Bezos e il modello Amazon che lo ha reso miliardario grazie al fatto di “aver ammassato un potere da monopolio usato per annichilire la concorrenza, di aver stritolato i dipendenti senza sosta in nome della produttività, di aver giocato con le tasse per evitare di dare troppi soldi allo stato”. “Davos Man” è un saggio (arcigno) del 2022, Peter Goodman è uno dei più importanti giornalisti economici del mondo (dal 2007 al New York Times), Jeff Bezos, grande frequentatore di Davos, quest’anno non c’è: ha preferito la tribuna d’onore all’inaugurazione presidenziale di Donald Trump, assieme alla sua scollatissima fidanzata, nelle file davanti ai ministri. Oggi Bezos fa parte di quelli che vengono chiamati gli “oligarchi tech”, i miliardari che, seguendo il traino di Elon Musk e il carro del vincitore, sono diventati sostenitori di quel Trump con cui, fino a pochi mesi fa, s’accapigliavano. Adrian Monck, che per anni è stato a capo della comunicazione del World Economic Forum, ha raccontato perfido le email del giovane Musk per ottenere un invito a Davos. Email “miserevoli, pavide e patetiche”, le ha definite Monck, forse a epitaffio di un’epoca che non c’è più.

Nel nuovo mondo, i “Davos men” finanziano la Casa Bianca trumpiana, preferiscono applaudire il neopresidente che farsi applaudire nei pensosi dibattiti davosiani, e lasciano che il futuro si veda fin dalle vetrine della Casa americana a Davos, con l’aquila minacciosa – espansionismo, anyone? – avvolta nella bandiera americana e la sponsorizzazione ostentata di $HBAR, una criptovaluta che in questi giorni “è andata sulla luna”, come semplificano alcuni esperti, grazie a Trump.

Il termine “Davos man” è stato introdotto nel 2004 da Samuel Huntington, quello dello scontro di civilità, in un saggio su National Interest, ed era usato come sinonimo di “cosmocrati”, persone che “hanno poco bisogno di una fedeltà nazionale, vedono i confini nazionali come un ostacolo che per fortuna sta svanendo, e considerano i governi nazionali come relitti del passato la cui unica e utile funzione è quella di facilitare le operazioni delle élite globali”. Che cosa rimane, nel nuovo mondo trumpiano, dell’uomo di Davos? Si è trasformato nell’oligarca tech? E “l’uomo Maga” dove si colloca? Ben Smith, fondatore e direttore del sito d’informazione Semafor, uno dei massimi esperti del mondo mediatico americano, da Davos dov’è in questo momento dice al Foglio che l’uomo di Davos “era focalizzato sul multilateralismo, sulle istituzioni globali e sulle regole” (usa il verbo al passato), mentre i nuovi leader tecnologici “sono unilaterali, come lo sono i loro leader preferiti”. Anche la trasformazione dei “Master of Universe” passa quindi dall’assetto che regge il mondo da ottant’anni alla rapacità dell’aquila americana, che impone il suo dominio espandendosi: la legge della forza più che quella delle regole, a discapito della convivenza.

A ben vedere però i cantori e i rappresentanti delle élite globali non hanno niente a che fare con gli oligarchi del trumpismo, che nasce proprio contro l’establishment globalista – che nel discorso d’insediamento Trump ha nuovamente denunciato, dicendo che tradisce il popolo americano – e contro la globalizzazione, votandosi al nazionalismo e al protezionismo. Secondo Ben Smith, “gli oligarchi tech vogliono la globalizzazione senza gli stati”, sintetizzando così la filosofia libertaria che ispira Musk, l’uomo dell’efficienza antiburocratica (in questa lotta ossessiva si è già perso per strada il suo compagno di avventure, Vivek Ramaswamy, che non farà più parte del dipartimento Doge, che sta nascendo negli uffici di SpaceX a Washington dove si lavora giorno e notte come è nel metodo di Musk, e che si trasferirà in un ufficio nella West Wing, secondo il New York Times). Musk non soltanto vuole snellire lo stato americano, ma con le sue tante aziende, prima di tutto quella spaziale, mostra di voler fare ciò che gli stati non fanno più, sostituendosi a loro.

In questo è estremamente diverso dal cosiddetto “uomo Maga”, come dimostra la faida già esplicita e chiacchierata con Steve Bannon, ideologo della lotta alle élite globali e al globalismo. Il primo grande scontro che c’è stato tra l’oligarca tech più importante (e più ricco, di tutti quanti, essendo il più ricco del mondo) e l’uomo Maga è stato proprio su questo: Musk vuole attirare talenti e competenze in America ed è per questo aperto a un’immigrazione selezionata, mentre Bannon e gli altri esponenti del cosiddetto Maga tradizionale (cioè quello in continuità con il primo mandato: ci sono e ci saranno sempre più sfumature da tenere in conto, con la possibilità che poi il trumpismo finisca in una lite colossale) che invece dicono che nel paese ci sono già le risorse e le competenze necessarie per far tornare l’America grande. L’uomo Maga è anche protezionista, vuole i dazi nei confronti dei paesi alleati, chiude le frontiere dal giorno uno, è custode dell’“America first” isolazionista e nazionalista: l’antitesi dell’uomo di Davos, insomma.

In questa trasformazione – dettata da un corteggiamento senza vergogna – si mischiano i miliardari, la tecnologia, il nazionalismo, l’espansionismo: li tengono insieme il potere e la rapacità, in vetrina a Davos, sul pulpito a Washington.

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  • Paola Peduzzi
  • Scrive di politica estera, in particolare di politica europea, inglese e americana. Tiene sul Foglio una rubrica, “Cosmopolitics”, che è un esperimento: raccontare la geopolitica come se fosse una storia d’amore – corteggiamenti e separazioni, confessioni e segreti, guerra e pace. Di recente la storia d’amore di cui si è occupata con cadenza settimanale è quella con l’Europa, con la newsletter e la rubrica “EuPorn – Il lato sexy dell’Europa”. Sposata, ha due figli, Anita e Ferrante. @paolapeduzzi

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