Napoli vs Napoli

Una narrazione selettiva pompa il turismo e l’immagine scintillante della città. Ma i problemi atavici restano intoccati. Pagano i giovani

Sono nato a Napoli (Arenella), ma ho vissuto a Caserta, fino al 1990, e poi a Roma, dove vivo e lavoro. Scrivo sempre questo nelle “bio” e sottolineo bene i passaggi: Napoli, Caserta, Roma. Eppure per (quasi) tutti io sono di Napoli nel senso che abito a Napoli. Spesso la cosa assume tratti comici. Per esempio, qualcuno di buon cuore mi invita a un convegno, mi chiede la bio e io scrivo: nato a Napoli, poi Caserta, poi Roma. Quello dice grazie, poi mi chiede della logistica: parti da Napoli, vero? Rispondo no, da Roma. E quello: ah, strano, sei di Napoli. Eh – dico – ma ti ho appena mandato la bio. E quello: sì, ho letto, sei nato a Napoli. Una volta uno scrittore napoletano molto noto, che conosco da anni, mi incontrò a Roma e mi disse: vuoi un passaggio per Napoli? Ma io abito a Roma, gli ho detto. Scusa, ha risposto, siccome parliamo sempre del Napoli (intendeva la squadra di calcio per la quale faccio il tifo).

A Lima, molti anni fa, un relatore mi introdusse in un convegno rubricandomi sotto la voce “scrittore napoletano” e io, quella volta, invece di precisare la mia bio, dissi di sì, che ero napoletano e cominciai pure a parlare in dialetto, “tanto – dissi – noi napoletani siamo stati dominati dagli spagnoli, dunque abbiamo molte parole in comune”. Ovviamente, non badai alle sfumature dello spagnolo andino, feci il mio talk tutto all’insegna di “simm’ e Napul’ paisà”. Quasi tutta la mia produzione narrativa è ambientata a Caserta e in parte a Roma, e in tanti, anche se hanno letto i miei libri, confondono Caserta con Napoli, ma l’unica volta in cui ho parlato di Napoli, nel senso di “Napoli Napoli”, cioè ho scritto una guida sulla città, i critici mi hanno detto: ma come fai a parlare di Napoli se sei di Caserta? Insomma, la città ha un fortissimo centro di gravità, se passi lì vicino ti risucchia. C’è un motivo preciso per tutto questo. Sì, va bene, è stata capitale del Regno, già al tempo una metropoli sconfinata e brulicante, ma questo interessa i nostalgici borbonici. Napoli è un centro di gravità perché a cominciare dal Settecento è stata raccontata utilizzando la tecnica del riflettore. Termine coniato dal grande critico letterario e filologo Erich Auerbach: consiste nell’inquadrare in uno scenario solo ciò che conviene, lasciando in ombra le altre parti che, se fossero a loro volta illuminate, potrebbero fornire una descrizione più analitica, ma meno utile nella propaganda e che quindi vengono volutamente lasciate in ombra.

Ma c’è anche una cultura aperta alle influenze, contaminata, problematica e inquieta, non facile da fotografare e neppure instagrammare

Napoli è raccontata da sempre usando spot di varia natura. Inquadra parzialmente questo, inquadra solo quell’altro, ed ecco che viene fuori la cosiddetta napoletanità: un potente lievito che ingloba tutto. La napoletanità si è nutrita di molti elementi, degli angeli e dei demoni, di cui hanno parlato i viaggiatori tra il Settecento e l’Ottocento, dei bassi e degli scugnizzi, della serie infinità di aneddoti, mosse e mossettine, di racconti di fatti divertenti ed eccezionali che “solo a Napoli li sanno fa’”. In questi ultimi anni, il racconto di Napoli passa specialmente per Instagram e vira sempre verso l’esotismo, e questo racconto alleva migliaia di turisti (anche d’oltre Oceano) alla ricerca del napoletano tipico, e migliaia di napoletani pronti a recitare da tipici napoletani: vicoli, murales, corpi tatuati, pizza e fritti ad libitum, bordello e tammorre, ex bassi trasformati in bed & breakfast così che il turista può vivere l’esperienza del tempo che fu. E poi sparatorie tradizionali, motorini che sgasano e fuochi d’artificio.

Il racconto di Napoli oggi passa specialmente per Instagram e TikTok e alleva migliaia di napoletani pronti a recitare da tipici napoletani

Responsabili odierni di questo andazzo culturale sono gli onnipresenti TikToker che parlano di identità napoletana, di cibo napoletano, di dialetto e di modi di dire, e che si vantano di questo e di quello. Uno dice: e vabbè, con questi influencer, che ti aspetti? Ma purtroppo la napoletanità ha una lunga storia, basti pensare che Pasolini scrisse un trattato sul buon cuore del popolo napoletano, eleggendo un fantomatico Gennariello a suo interlocutore, e sostenendo tra le altre cose che a Napoli il furto non è un furto, ma uno scambio di antichissimo sapere. “Considero anche l’imbroglio uno scambio di sapere. Un giorno mi sono accorto che un napoletano durante un’effusione di affetto mi stava sfilando il portafoglio, gliel’ho fatto notare e il nostro affetto è cresciuto”. Bel concetto, ma papale papale significa che se il portafoglio ve lo rubano in altre città, probabilmente vi sentirete vittime di reato, se vi accade a Napoli è motivo di allegria naturale: non ve lo ruba un ladro, ma un Tuareg (anche Paolo Poli era concentrato su questi furti tipici, “a Napoli ti rubano le valige ma lo fanno con il cuore”).



Per fortuna, in tanti (ma non abbastanza) mettono in discussione questo sguardo estetico ed estatico, insomma questo orientalismo che fa rima con colonialismo. Ma a Napoli meno, la città vive di napoletanità, una dimensione che si abbevera allo sguardo esotico. E lo produce a sua volta. I napoletani recitano da napoletani. Il problema è che questa continua autorappresentazione e autoproclamazione, a forza di esagerare e dilatare i contorni delle cose, non solo fa perdere di vista le singole esperienze individuali (in fondo la letteratura è tutto ciò che sfugge alla statistica), ma non analizza la tensione indomabile tra io e collettività. Con questi riflettori puntati a illuminare solo ciò che conviene, Napoli diventa sì un punto di gravità, ma viene a mancare l’analisi tra le singole parti, gli innesti tra luce e ombra. Il racconto di Napoli manca di una sguardo serio, realistico (verrebbe quasi la voglia di rispolverare le tesi di Auerbach sul grottesco: i poveri che vengono usati per far ridere).



A proposito di realismo: anche se il glorioso quotidiano il Mattino ultimamente ha optato per un cambio di paradigma, cioè sprona a non guardare il bicchiere mezzo vuoto, ci sono dei dati molti tristi che andrebbero sottolineati ma che purtroppo vengono offuscati dall’invasione turistica e dal racconto delle bellezze della città.

La disoccupazione giovanile più alta d’Italia, pari al 43 per cento. Circa un sesto dei posti di lavoro in Campania è in nero

Nonostante i soldi portati dal turismo (che ricordiamo è un settore trainato e non trainante, poco innovativo e impattante), circa un sesto dei posti di lavoro nella regione sono in nero e i giovani napoletani stanno abbandonando la scuola e lasciando la città in numeri record. La giornalista Emma Bubola, che ha firmato un bello e serio e appassionato reportage per il New York Times, scrive: “Napoli è una specie di archetipo dell’Italia.

La città incarna “uno dei paradossi più dolorosi del paese: così attraente per gli stranieri, così scoraggiante per i suoi giovani”, scrive Emma Bubola sul Nyt

La sua pizza, il suo sole, il suo dialetto e i suoi manierismi sono stati ciò che molti immaginano quando pensano all’Italia. Ora, Napoli è anche arrivata a incarnare uno dei paradossi più dolorosi del paese: così attraente per gli stranieri, così scoraggiante per i suoi giovani”. Se guardate i ragazzi che oggi fanno i tuffi da Castel dell’Ovo è certo che fate foto da mettere su Instagram: sono belli, abbronzati e si tuffano con scioltezza e spudoratezza. La vita è promettente in quei corpi, la forza è con loro – pensate – e postate foto su foto. Ma se tornate a fotografarli fra qualche anno vi stupirete, per molti di loro la ruota non ha girato bene.



Un bel film di Giovanni Piperno e Agostino Ferrente, del 2000, “Intervista a mia madre”, raccontava di quattro adolescenti napoletani, due ragazze e due ragazzi. Era tutti belli e vitali. Certo, la scuola non faceva per loro. Una delle protagoniste era stata bocciata più volte alle medie, ma a sentirla parlare pensavi: questa ragazza ci dà una pista, per simpatia, spontaneità, intelligenza pratica. Poi Piperno e Ferrente sono tornati a intervistarli del 2013 (il nuovo film si chiama “Le cose belle”). La trasformazione era impressionante: tutti depressi, spenti, senza sbocchi, nessuno aveva realizzato quello che si proponeva. Quell’intelligenza e vivacità si erano spente. Strano? No, è il destino di molti adolescenti napoletani. Sono in tanti a rientrare nella suddetta casistica, alle quale non abbiamo trovato rimedio. Come dire, a Napoli, un attimo dopo i tuffi, un passo dopo l’autoproclamazione di appartenenza alla neapolitan way of life, non c’è niente. O meglio, ci sono fatti tragici, non instagrammabili. Le gemelle Aurora e Sara Esposito, morte nell’esplosione di una fabbrica di fuochi d’artificio insieme con Samuele Tacfu, sono un esempio fra i tanti. Le ragazze cresciute nella periferia di Napoli, come da statistica, avevano lasciato la scuola molto presto: a 14 anni. Solita trafila, lavori saltuari, tra pulizie e qualche volta a letto senza cena. Quando hanno trovato un lavoro in nero, in una fabbrica di fuochi d’artificio, hanno accettato. Ovviamente non avevano nessuna esperienza di fuochi d’artificio e tra l’altro lavoravano in una fabbrica improvvisata, senza sistemi di sicurezza, e senza bagno. Mi piacerebbe tanto se Aurora e Sara rappresentassero un singolo maledetto caso, perché potremmo lavorare per impedire che avvenga di nuovo, ma l’elevata disoccupazione che persiste da sempre e i bassi livelli di istruzione sono le cause principali della diffusione del lavoro nero. Contratti inesistenti, anche perché proposti non da imprenditori ma da speculatori. E da altri imprenditori più in regola e più intraprendenti ma che tuttavia si portano sulle spalle esperimenti falliti di industrializzazione, decisioni top down, cattiva amministrazione politica e la presenza pervasiva della camorra: non è una buona miscela.



A proposito di camorra: un’industria che ha le sue regole, ti paga meglio dell’imprenditore per modo di dire ma per entrarci prima di tutto ti devi far conoscere, quindi devi essere già a 13/14 anni franco di cerimonie, coltello e pistola d’ordinanza, poi sbruffoneggiare dint’ o quartiere, occupare il territorio e sparare in giro. Una volta assunto devi far girare la droga, un lavoro a tempo pieno, senza distrazioni di sorta. Perché non dimentichiamoci di questo altro brutto affare: la droga si spaccia perché ci sono rispettabili consumatori in ogni dove. Anche lì, inquadriamo la fabbrica e dimentichiamo il consumatore (non vorrei passare per proibizionista, sarei anzi per sperimentare nuove vie). Per far girare la droga entri nel sistema e ci devi entrare presto e non c’è migliore età dell’adolescenza. E sì, è rischioso ma la triade droga, spaccio e sparatoria ha purtroppo il suo fascino, ed è diventata una way of life, difficile riuscire a disarmare la città. In fondo, il conto dei morti non viene messo sulla mappa dai cultori della napoletanità.



Francesco Pio Maimone, chi se lo ricorda? E’ stato ucciso a marzo del 2023 sul bellissimo lungomare di Mergellina da un proiettile vagante che lo ha colpito al cuore. Il ragazzo aveva abbandonato la scuola, anche lui presto. Lavorava part-time lavando i cassonetti della spazzatura, aveva appena terminato un corso di formazione per pizzaiolo. Un ventenne suo omonimo, Francesco Pio Valdo, è stato accusato dell’omicidio. Anche lui aveva abbandonato la scuola. Entrambi provenivano da zone emarginate di Napoli. Ora, non si può realisticamente pensare che grazie alla scuola domani l’emarginazione culturale, sociale e politica avrà termine, ma sicuro il racconto della napoletanità evita di analizzare queste tristi questioni: troppo autarchico quel racconto, troppo sovranista per accettare critiche. Sono nato a Napoli, ho abitato a Caserta e poi a Roma. Vivendo a Caserta, a due passi dalla Reggia, non ho mai amato i Borboni, hanno lasciato un territorio devastato dall’ignoranza: l’86 per cento di analfabeti (dato del 1861 che si avvicinava a quello della Russia zarista). Nessuna donna sapeva leggere e scrivere. “In una società – scriveva Emilio Sereni – in cui l’agricoltura costituisce la fondamentale attività produttiva, l’esclusione delle donne dal lavoro dei campi comporta una sua netta inferiorità sociale”. Un territorio devastato dall’arretratezza, con due banche e qualche monte frumentario. Ah, certo, c’era la prima ferrovia: la Napoli/Portici (1839), lunga 7 chilometri, poi prolungata, negli anni seguenti, fino a Castellammare e Pompei. Una linea ferroviaria che portava al mare la famiglia reale. Per citare Emanuele Felice: “Nel 1859 la rete ferroviaria del Regno delle due Sicilie era di 99 chilometri (850 km Piemonte e Liguria; 522 km Lombardia e Veneto, 257 km Toscana, pure il papato superava i Borboni, 101 km)”.



Tuttavia, pur non amando i Borboni fin da piccolo sono stato orgoglioso della nuova cultura napoletana, quella musicale soprattutto, pre e post terremoto. Avreste dovuto sentire cos’era Pino Daniele agli esordi, con che timbro cantava “Terra mia”, versione unplugged, in una città ancora sostenuta dai tubi innocenti, e che silenzio e turbamenti riflessivi provocavano i suoi accordi (e con lui una schiera di eccezionali musicisti, e nel conto vanno messi gli Almamegretta, i 99 Posse e soprattutto i Co’Sang). Avreste dovuto vedere cos’era Massimo Troisi con e senza smorfia, la sua capacità di riflettere sulla nostra condizione esistenziale e non solo su quella napoletana. Certo, va citato Diego Maradona anche perché ha giocato per la gioia di qualche scugnizzo locale e per la disperazione dei The Lloyd’s una partitella nel fango. Ecco, tutti noi nati a Napoli ma casertani eravamo orgogliosissimi di quella cultura perché era aperta alle influenze, contaminata a più non posso, problematica e inquieta, non facile da fotografare e neppure instagrammare. Eravamo orgogliosi perché quel tipo di cultura (aperta e inquieta) è il modo migliore per misurare lo stato del mondo (non solo di Napoli) e provare a riflettere sul da farsi, invece che illuminare pigramente le singole parti e poi perderci in proclami di appartenenza militante, così superficialmente napoletani, così sovranisti, così italiani.

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