Keith Jarrett, il genio dell’improvvisazione

Cinquant’anni dal “Köln Concert”, quando cambiò la grammatica del pianoforte. Un incantesimo jazz di cui il musicista non però era soddisfatto: avrebbe voluto calpestare ogni copia del disco ma si è rivelato il suo più grande successo commerciale

Quel concerto del 24 gennaio 1975 al Teatro dell’Opera di Colonia non si sarebbe dovuto tenere. Tanti imprevisti sembravano suggerire che fosse meglio lasciar perdere. Per prima cosa, il pianoforte. Keith Jarrett aveva chiesto un Bösendorfer 290 Imperial, novantasette tasti capaci di fornire all’esecutore ben otto ottave e una serie di possibilità espressive che l’artista, fino ad allora sempre fedele allo Steinway, quella sera avrebbe voluto utilizzare. L’idea gli era venuta ascoltando un collega suonare proprio su quei tasti. Quel pianoforte però non era arrivato e lui si era ritrovato alle prese con un Bösendorfer più piccolo, dal suono scadente, metallico, per di più con i pedali non registrati, usurato dal tempo e dal percussivo alternarsi di mani che negli anni ne avevano navigato la tastiera; uno strumento malmesso, un po’ come lui, con i suoi atavici e invalidanti problemi alla schiena che l’avevano costretto a due notti insonni, problemi aggravati dalle 350 miglia percorse in una Renault 4 per raggiungere Colonia da Zurigo.



Il pianista statunitense più famoso al mondo, capace di passare dalla classica al jazz e di fondere entrambi i generi nelle sue dita, avrebbe potuto rinunciare senza alcun problema. In fondo, si trattava solo di un concerto tra i tanti – ventiquattro da solista, dei quali undici in Europa – di un tour iniziato il 16 ottobre 1974 a Washington, D.C. e che avrebbe dovuto concludersi il 20 aprile 1975 a Waterville, nel Maine. Un percorso di purificazione intrapreso nel ’73, una sorta di battesimo musicale capace di mondare “peccati”, ridonare una verginità perduta. La voglia di tornare all’essenziale, il pianoforte e nulla più, dopo essere stato chiamato qualche tempo prima da Miles Davis a cimentarsi con un organo elettrico in un progetto sperimentale che potesse spingere il jazz oltre il jazz. Un progetto visionario – Davis ne lanciava in continuazione – che però aveva portato Jarrett a una sorta di insofferenza, a un esaurimento espressivo sanabile solo attraverso qualcosa di nuovo. Eccoci allora a Colonia, ma in quelle condizioni non si può fare musica, pensa Jarrett, risalito sulla sua Renault 4, pronto a rientrare in albergo, il motore acceso e i vetri rigati da una lieve pioggia.

La sera del 24 gennaio ’75 Jarrett non vuole nemmeno più suonare. Risale in macchina, ma Vera Brandes, produttrice del concerto, lo convince

Arriva di corsa la diciannovenne Vera Brandes, produttrice del concerto, si lancia verso il suo finestrino chiedendogli di ripensarci e di non deludere il pubblico di un teatro ormai tutto esaurito. “Non dimenticarlo mai. Solo per te”, le dice Jarrett scrutando la ragazza, bagnata dalla pioggia e dalle lacrime che solcano il suo volto. E così i tecnici, che avevano riavvolto i cavi e staccato i microfoni, prontamente riallestiscono tutto. Non sarà la registrazione della vita – pensano – ma può essere un ottimo materiale d’archivio. Gli accordatori tirano le corde del pianoforte. I tasselli andranno ciascuno al loro posto come nelle più perfette partiture dove ogni voce ha il suo perché, ogni linea segue il suo percorso, ogni segno ha il suo senso d’esistere. Attimi, cambi repentini, imprevisti che si chiariranno alla fine di quella rigida sera di un inverno tedesco, quando Keith Jarrett alza il pugno al cielo, lascia il backstage, guarda Manfred Eicher, direttore di ECM Records e gli urla “Power!”. Intanto sono le 23.30 e in sala la campanella avvisa i 1.432 paganti (in gran parte giovani, appassionati di jazz e musicisti “classici”) che il concerto sta per iniziare. Jarrett utilizza quegli squilli come primi lampi di una cascata di luce. “Tutti si resero conto che quella era magia – dirà qualche anno dopo la Brandes – le prime note e tutti furono rapiti”.

Non musica composta e nemmeno variazioni di temi dati. Tutto nasce inaspettatamente: ritmi, strutture, sequenze armoniche e texture



L’idea di fondo è quella di una improvvisazione che abbia origine dal nulla e termini nel nulla. Qualcosa di mai ascoltato nella storia del pianoforte e del jazz. Non musica composta, memorizzata e nemmeno variazioni di temi dati. Tutto nasce inaspettatamente: ritmi, temi, strutture, sequenze armoniche e texture. Suggestioni, istantanee del momento, in continuo dialogo tra l’autore-interprete e il suo personalissimo mondo circostante. E così, inoltrandosi in questa serata così misteriosa, tutti gli imprevisti ritrovano una logica: quel pianoforte malmesso, dal suono metallico e poco equilibrato, costringe il pianista a cercare nuove vie. Un certo uso del pedale, il continuo e percussivo ribattersi di suoni, piccole cellule melodiche; frasi accennate e poi perse, lunghi arabeschi, armonie liquide e volutamente nebulose, ricreate attraverso l’utilizzo del pedale di risonanza e tonale. Le parti liriche si alternano a quelle più ritmiche. In poco più di sessanta minuti c’è il jazz, il blues e il rock ’n’ roll, il folk americano, la musica minimalista ma anche echi del simbolismo di Debussy. Non mancano intrecci polifonici di un Bach trasfigurato. Tutto perfettamente collegato da un Jarrett che sembra stia suonando tutte le parti di una band che si mischiano ai suoni ambientali che i microfoni catturano. Con loro i sussulti, i gemiti, il canto in falsetto di Jarrett, una sorta di contrappunto che si sovrappone alla linea strumentale (molto presenti anche nelle esecuzioni bachiane di Glenn Gould) e al battere del coperchio della tastiera. La testimonianza che la musica vive con l’uomo, nel suo sforzo e nel suo incensurabile moto a palesarsi. Jarrett al pianoforte si muove, si alza sullo sgabello, si piega verso i tasti, si allontana. Gioisce al sorgere di una nuova idea melodica, si accartoccia quando la scrittura diventa vorticosamente densa. Un compenetrarsi che è parte necessaria e insostituibile dell’intero processo creativo e che dona all’arte di Jarrett da un lato una sorta di “visceralità”, dall’altro quella spazialità che consente all’ascoltatore di respirare. “L’improvvisazione ti permette di esplorare il tuo strumento, te stesso e il mondo che ti circonda in modi che non puoi prevedere – dice – è una forma di auto-espressione che va oltre la tecnica”.

Sicuramente è un mondo dove convergono libertà e rigore, abilità tecniche e un vocabolario musicale subordinato alla musa ispiratrice che guida l’artista in scena. “L’improvvisazione non ha mai ricevuto il rispetto che merita – afferma nel documentario Keith Jarrett – The Art of Improvisation – per la sua natura profondamente olistica, richiede tutto. Si svolge in tempo reale, senza possibilità di correzioni, e coinvolge il sistema nervoso in uno stato di allerta totale per ogni evenienza, in un modo unico rispetto a qualsiasi altro tipo di musica. Io, essenzialmente, sono un improvvisatore e ho scoperto questa mia natura suonando musica classica”.

Ci si è dimenticati come l’improvvisazione fosse stata centrale nella vita di tanti grandi compositori: Bach, Mozart, Schubert

Negli anni, quest’ultima ha messo da parte l’improvvisazione ponendosi in un atteggiamento rigido, dimenticando come fosse stata centrale nella vita di tanti grandi compositori. Bach costruiva fughe estemporanee che rispettavano rigorosamente le regole del contrappunto, dimostrando un perfetto equilibrio tra creatività e disciplina teorica. Mozart creava in maniera estemporanea le cadenze dei suoi concerti. Schubert è ricordato come un ottimo improvvisatore. Ma poi l’improvvisazione, segno del genio musicale, è stata gradualmente soppiantata dall’enfasi crescente assegnata alla composizione scritta e alla fedeltà al testo. Questa trasformazione è attribuibile a vari fattori: la sacralizzazione del compositore come figura demiurgica, l’aumento della complessità tecnica delle partiture e la nascita di un pubblico sempre più legato a una precisione esecutiva. L’evolversi della notazione così ha fossilizzato l’idea della partitura come unica “voce” del compositore.

Jarrett non è stato entusiasta del risultato, si dice che avrebbe voluto calpestare ogni copia del disco. Ma è il suo più grande successo commerciale



Quella serata di cinquant’anni fa divenne il disco di maggior successo del solista jazz con circa tre milioni e mezzo di copie vendute, numeri cresciuti anche a distanza di anni. Nell’album il concerto fu suddiviso in quattro parti mentre dal vivo comprendeva due tempi e un bis. Jarrett non è mai stato entusiasta del risultato, alcuni raccontano che avrebbe calpestato sotto i suoi piedi ogni copia venduta, vedendo il suo nome troppo accostato a quel recital. In un’intervista allo Spiegel nel 1992 lamentava come quel concerto fosse diventato una sorta di colonna sonora. Altri rintracciano in quel brano l’alternarsi di momenti lirici, spesso ipnotici della musica New Age. In tanti si sono avvicinati al jazz ascoltando quell’incisione. Innumerevoli i tentativi di fissare su carta ogni singola nota; esistono trascrizioni per pianoforte, anche per chitarra, incapaci ovviamente di rendere quella magia che nasce dall’improvvisazione “dal vivo”, dove il pubblico partecipa all’atto creativo. Come scrive Peter Elsdon in un interessante studio sul “Concerto di Colonia”, quello di Jarrett è un disco che si muove su una “faglia estetica” dove da un lato c’è l’esempio della musica improvvisata tipico del jazz, dall’altro uno slittamento di questa musica a brano di consumo, ambientale, di sottofondo. La novità del disco di Jarrett è l’essere diventato molto di più della semplice “istantanea” sonora di un concerto dal vivo: ha una sua storia all’interno della quale gli ascoltatori cercano e trovano personalissimi significati.



Tante le iniziative pensate per celebrare i cinquant’anni del Köln Concert, tra cui il film “Köln 75” (sarà presentato in anteprima a febbraio al Festival internazionale del cinema di Berlino), scritto e diretto da Ido Fluk, che narra la storia di Vera Brandes e del suo folle gesto di portare Keith Jarrett a Colonia. Una seconda pellicola, un documentario di Vincent Duceau, racconta il processo creativo, intrecciando due narrazioni distinte che si completano a vicenda nel corso del film. Una sorta di indagine senza materiali d’archivio se non la registrazione del concerto stesso e le poche e contraddittorie testimonianze dei protagonisti di quella frenetica giornata che cambierà la musica.



Quest’anno Keith Jarrett compie ottant’anni. Poco si sa della sua condizione fisica. Nel 2017, l’ultimo concerto alla Carnegie Hall (tempio della musica classica). Da poche settimane Donald Trump era diventato nuovo presidente degli Stati Uniti d’America. In quell’occasione, il pianista intervallò molti brani a discorsi contro il neo presidente, definendolo “l’opposto di quello che è il popolo americano”. Una rabbia che riversò nella tastiera, donando al pubblico un’altra serata magnifica e reciproca commozione. Poi il silenzio. Un ictus l’anno successivo e le dolorose dichiarazioni al New York Times: “Non sono più un pianista”. Poi quasi a correggersi: “E’ molto frustrante ascoltare musica per pianoforte. Quando ascolto Schubert o anche una semplice melodia, sto male fisicamente perché non sono più capace di farlo e non ci sono possibilità che possa riuscirci in futuro. Al massimo si spera che io recuperi la forza nella mano sinistra per poter tenere una tazza. Quindi non è una cosa del tipo ‘sparare al pianista’… mi hanno già sparato!”. Dice questo e poi ride per mascherare la sofferenza che vive ogni giorno un uomo dipendente dalla musica, alla ricerca di suoni che animano il suo mondo interiore. Un artista rimasto fedele ai suoi princìpi fatti di anti divismo, insofferenza per l’industria musicale, libertà espressiva e coraggio interpretativo. Jarrett è sempre stato così, sin da quando modificava al pianoforte le partiture di Mozart, Bach e Beethoven per approdare al primo concerto jazz al Village Vanguard di New York (in platea c’erano quindici persone).

Oggi tutti noi sogniamo di rivederlo seduto al pianoforte ma quasi certamente ciò non accadrà. Quest’anniversario sembra fatto apposta per ricordarci la triste verità e per far sorgere in noi una domanda: a cinquant’anni dal 24 gennaio, che cosa rimane di quel concerto? Un’opera d’arte in cui il tempo è catturato nel suo “attimo puro” e poi dilatato di suono in suono. La grazia, capace di ricollegarci all’essenza stessa della musica, vale a dire il suo carattere effimero e volatile. Il silenzio, l’unico territorio in cui può sorgere l’immaginazione, esperienza a cui Jarrett è rimasto sempre fedele. Uno stato continuo di ricerca, realizzabile, per assurdo, in un contraddittorio atto di oblio. “Dobbiamo anche imparare a dimenticare la musica – ripete spesso – altrimenti diventiamo dipendenti dal passato”.

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