Il Musk del ‘900. La parabola di Henry Ford

Storia dell’imprenditore che rivoluzionò l’auto e fece del suo giornale un megafono per il peggiore antisemitismo

Geniale lo era davvero. Spregiudicato, infaticabile. Metteva bocca su tutto. Non fu mai eletto a nulla. Ma pretendeva di dare la linea al proprio paese sulle questioni di pace e guerra. Finanziava e simpatizzava con la destra in Europa. Odiava la sinistra, i socialisti, i sindacalisti. Divenne il quarto uomo più ricco d’America, terra in cui i miliardari nascono come funghi. La macchia più odiosa che pesa sulla sua figura è l’aver comprato un giornaletto di provincia che stava per fallire, e averlo trasformato in un colosso da quasi un milione di copie, con un’unica ossessione: dar addosso agli ebrei, dimostrare che sono la rovina del mondo, una razza maledetta da cancellare dalla faccia della terra. Hitler l’aveva preso in parola.


Henry Ford era un geniaccio. Su questo non ci piove. Un po’ pazzo, allucinato, eccentrico, esibizionista come lo sono spesso i geni. Il soprannome Crazy Henry se l’era guadagnato sin dalle prime volte che i curiosi si affollavano attorno alla sua creatura, un trabiccolo, un quadriciclo a motore, che aveva assemblato con le sue mani. Lui si compiaceva che gli dessero del matto. “Pazzo sì, ma come un volpe”, gli avrebbero sentito rispondere di tanto in tanto.

Inventò qualcosa di più importante dell’automobile: l’automobile alla portata di tutti, anche degli operai che la producevano



Ford aveva creduto nell’automobile col motore a benzina quando ancora non ci credeva nessuno. Esattamente come Elon Musk ha sempre creduto nell’auto elettrica, anche quando gli altri dicevano che la sua Tesla era destinata al fallimento. Figlio di contadini, Ford aveva abbandonato la scuola a 17 anni. Il suo datore di lavoro nell’officina meccanica in cui l’avevano preso come apprendista tornitore prendeva in giro i suoi esperimenti: “L’elettricità sì che ha un futuro, ma la benzina proprio no!”. Non fu lui a inventare l’automobile, quella che allora veniva chiamata “carrozza senza cavalli”. Non per niente in inglese si dice car. Inventò qualcosa di più importante: l’automobile alla portata di tutti. Più precisamente, l’automobile come bene di consumo di massa, anche da parte degli operai che la producevano.



“Costruirò una macchina a motore per le moltitudini. Sarà abbastanza grande da portare l’intera famiglia, ma abbastanza piccola da essere guidata e gestita da una persona sola. Sarà costruita con i migliori materiali, assumendo le migliori maestranze, secondo i più semplici design dell’ingegneria moderna. Ma costerà così poco che tutti coloro che hanno un salario decente saranno in grado di possederne una, e godere, assieme alla sua famiglia, dei grandi spazi della natura”, aveva annunciato. Gli risposero che “se faceva qualcosa del genere, sarebbe fallito nel giro di sei mesi”. L’automobile in effetti è stata il simbolo, il sogno realizzato di libertà, oltre che di benessere, per gran parte del secolo scorso. Anche nel comunismo reale il sogno del popolo fu a lungo l’auto privata. Sognavano la Volga, la Trabant, la Shanghai. La sognavano, la desideravano. Forse più ardentemente di quanto desiderassero la libertà.



Il nome Ford è sinonimo di fabbrica e industria moderne. Per Gramsci era il sinonimo di America. Pagava i suoi operai più di tutti gli altri industriali. Non lo faceva per generosità. Lo faceva per sottrarre manodopera qualificata ai concorrenti. Nel 1914 gli raddoppiò la paga, portandola da 2,5 che era, a 5 dollari al giorno. Ci fu, tra gli industriali concorrenti, chi gli diede addirittura del “socialista pazzo”. Ma Ford non era né socialista né pazzo. Uno storico stima che i 10 milioni di dollari che gli costò l’iniziativa dei five dollars a day gli fruttarono l’equivalente di 20 milioni di dollari in pubblicità. C’era la fila per essere assunti ai cancelli delle sue fabbriche. Le maestranze disertavano le catene di montaggio della concorrente General Motors, portandola quasi sull’orlo del fallimento. Ford non si era limitato ad adottare l’organizzazione scientifica del lavoro di Frederick W. Taylor. Aveva costruito intere città per fornirgli alloggio e servizi sociali accanto alle fabbriche. Ma al tempo stesso aveva istituito un vero e proprio “Grande fratello”, un capillare sistema di spionaggio ai danni dei propri dipendenti, una polizia privata che li controllava fin dentro le loro case per evitare che cadessero preda dei vizi, dell’alcol, della propaganda dei comunisti o, peggio ancora, gli venissero grilli di sindacato. Negli anni 30, della Grande Depressione, a quelli che scioperavano gli avrebbe anche fatto sparare addosso.

Nel 1915, a Guerra mondiale già in corso, noleggiò un transatlantico per andare a perorare la causa della pace. Con socialisti, suffragette e giornalisti



Come Musk, Henry Ford aveva grandi idee. Una ne pensava e cento ne faceva. Promuoveva e finanziava grandi cause. Nel 1915, a Guerra mondiale già in corso, noleggiò un transatlantico per andare a perorare la causa della pace. Si imbarcò in compagnia di numerosi attivisti pacifisti, esponenti della sinistra socialista, suffragette militanti per la causa del voto alle donne e, soprattutto, un gran numero di giornalisti. Furono pesantemente dileggiati sulla stampa americana, nonché da quella dei paesi belligeranti che avrebbero dovuto convincere di smettere di fare la guerra. I suoi sforzi di mediazione furono criticati come dilettanteschi. Non giovò che, appena arrivati in Norvegia, che era rimasta neutrale, Ford facesse sbarcare, con gran fanfara, uno dei trattori di sua produzione che si era portato appresso. Il messaggio probabilmente voleva essere: trasformate le spade in aratri, anzi in trattori. L’intera iniziativa venne derisa come trovata pubblicitaria, per vendere macchine Ford in Europa. Quando anche gli Stati Uniti entrarono in guerra, nessuno se ne ricordava più.


Per fortuna sua, e degli americani, Ford non entrò in politica. Accettò di candidarsi una volta sola, nel 1918, su pressante insistenza dell’allora presidente democratico Woodrow Wilson. Non in un’elezione nazionale, ma per il seggio senatoriale del Michigan. Il suo avversario, Truman H. Newberry, era anche lui ricchissimo, azionista di una fabbrica di automobili rivale della Ford Motor Company, quella che produceva l’aristocratica Packard. L’auto dell’oligarchia contro l’auto delle famiglie, l’auto del popolo. Fu una delle campagne più cattive della storia. I due candidati investirono milioni, si scaricarono addosso tonnellate di accuse di corruzione, di violazione delle norme sulle spese elettorali, di fango e guano scavate dai rispettivi eserciti di giornalisti, detective privati, giudici nei libri paga dell’uno o dell’altro. Vinse Newberry, per un soffio. Ford ci rimase malissimo. Tanto male che nel 1924 rinunciò a candidarsi alla Casa Bianca, malgrado si stessero già formando, in tutto il paese, club all’insegna del “Ford for president”.



Ford non era un buon perdente. Quella sconfitta elettorale se la legò al dito. Seguirono anni di battaglie legali, fino alla Corte suprema, per invalidare il risultato. Soprattutto, la sconfitta contro Newberry diede la stura a un’altra delle idee fisse, delle ossessioni permanenti di Henry Ford: l’idea di un grande complotto contro di lui, e, ovviamente, contro l’America. Nessuno sarebbe riuscito a levargli di testa l’idea che la vittoria elettorale gli era stata rubata. E che dietro il misfatto c’era la cospirazione ebraica.



Il vecchio Ford non aveva grande considerazione dei giornali. “Vado di rado oltre la lettura dei titoli”. Tanto meno gli interessavano i libri. “Non mi piace leggere libri. Mi confondono le idee”. Aveva fatto causa al Chicago Tribune perché in un editoriale gli avevano dato dell’“idealista ignorante” e del “nemico anarchico della nazione”. Al processo, l’avvocato della controparte riuscì a dimostrare che ignorante in effetti lo era. Lo fece cascare penosamente su diverse castronerie circa il funzionamento del governo americano, persino sui princìpi base della Costituzione. Gli fece ammettere dal banco dei testimoni: “Ebbene sì, ammetto di essere ignorante su parecchie cose”. Siccome non fu provata l’accusa di essere “anarchico”, Ford vinse, sia pure a metà, la causa per diffamazione. La giuria però gli riconobbe un risarcimento solo simbolico, di appena 6 centesimi. Che anche a quei tempi suonava beffardo.

Comprò il Dearborn Independent “per promuovere e incoraggiare il pensiero indipendente”: cioè quello dei “Protocolli degli anziani di Sion”



Ford arrivò alla conclusione che almeno un giornale valeva la pena possederlo. Si era accorto che, se il potere logora chi non ha i mezzi finanziari per sostenerlo, logora di più chi non ha mezzi di comunicazione. I mezzi di comunicazione per eccellenza dell’epoca erano giornali. La radio era agli inizi, la tv manco esisteva, le piattaforme social era impossibile anche solo immaginarle. Ford si comprò un piccolo settimanale di provincia, il Dearborn Independent. “Ho idee precise e ideali che credo siano pratici, per il bene di tutti, e voglio trasmetterli al pubblico senza che siano ingarbugliati, distorti, riferiti erroneamente”, spiegò. Rassicurò che “questo giornale esiste per diffondere idee, le migliori idee che si possano trovare. Vuole fornire argomenti di riflessione. Intende promuovere e incoraggiare il pensiero indipendente”. Colpisce l’assonanza con il modo in cui Elon Musk ha spiegato il suo investimento multi miliardario in Twitter, diventato X, e poi giustifica la scelta di non censurare nulla, nemmeno le posizioni più impresentabili, purché si vada nella direzione che garba a lui.



Il Dearborn Independent divenne l’organo del più rabbioso, viscerale, ignobile antisemitismo che l’America abbia conosciuto. L’idea centrale era che una spaventosa cospirazione giudaica aveva causato la Guerra mondiale, portato il bolscevismo in Russia, seminato caos e distruzione tra le nazioni ariane in Europa, e ora minacciava l’America. La “fonte” principale era un clamoroso falso antisemita commissionato nell’Ottocento dalla polizia segreta zarista, noto come I protocolli degli anziani di Sion.



Se di libri il vecchio Ford ne leggeva pochi, questo lo aveva divorato. Peggio: aveva creduto ciecamente a tutte le fandonie che vi venivano raccontate. C’è solo una cosa più pericolosa delle interpretazioni complottistiche della storia: il crederci davvero. Paranoia e fanatismo sono brutte patologie. Mescolati insieme diventano una miscela esplosiva. Ford probabilmente credeva davvero che la cospirazione ebraica fosse all’origine della guerra e di tutti i mali del mondo. Che l’orrenda favola dei Protocolli si attagliasse perfettamente anche a quel che stava succedendo in America. “L’Ebreo internazionale controlla oggigiorno tutti i centri finanziari del governo, compresa la Federal Reserve, che ha asservito ai propri piani…”, si sostiene in uno degli editoriali da lui ispirati.

I ben 90 lunghi articoli della serie antisemita furono ristampati in “The International Jew”. I nazisti se ne servirono per nutrire l’odio



Ford aveva ingaggiato le più brillanti penne. Aveva messo su un gruppo di ricerca formidabile, sguinzagliato archivisti in tutto il mondo per raccogliere le “prove” del complotto internazionale ebraico. Li mandò anche in Palestina. E persino in Mongolia. Fu una delle maggiori operazioni di fake news, disinformazione mirata, del secolo. I ben 90 lunghi articoli della serie antisemita furono ristampati in un’opera in quattro grossi volumi, di 250 pagine ciascuno, intitolata The International Jew. L’opera fu tradotta in 16 lingue. Si stima che se ne siano stati venduti 10 milioni di copie in America, altri milioni in Europa. La traduzione tedesca fu intitolata Der Ewige Jude, l’Eterno ebreo. Ford è l’unico americano cui Hitler rende omaggio nel Mein Kampf. I nazisti lo usarono a man bassa per nutrire l’odio di massa che sarebbe sfociato nell’olocausto.



Una piccola antologia dal giornale di Ford. Tanto per dare l’idea. Gli ebrei sono “le iene e gli avvoltoi della terra”. “Parassiti, infingardi, pazzi…, apostoli dell’assassinio”. “L’ebreo è la fondazione stessa della più grande maledizione che grava oggi sul mondo: la guerra”. “L’ebreo è un magliaro, un mediatore che non vuole produrre, ma solo trarre profitto da quello che qualcun altro produce”. Si lamentano continuamente di essere i perseguitati, ma sono loro i veri persecutori. “Sono persecutori in Polonia. Sono persecutori in Russia. Sono persecutori in Palestina. Sono stati gli arci-persecutori religiosi della storia, come testimoniano i migliori storici…”.



“Appena gli sarà possibile cominceranno a fare i persecutori anche in casa nostra”. “Il sionismo è attualmente, come vi diranno confidenzialmente diversi governi, la cosa più nociva che ci sia, la cosa potenzialmente più pericolosa”. Si lamentano dell’antisemitismo, ma “l’antisemitismo semplicemente non esiste”, quel che c’è è l’odio degli ebrei nei confronti di tutti gli altri. Non a caso anche i semiti ce l’hanno con loro: “La Palestina è piena di semiti [gli arabi] che ce l’hanno a morte con gli ebrei”.



Stanno rovinando l’America, infiltrandosi dappertutto, asservendone la politica ai propri disegni. Hanno già rovinato l’Europa. Ma prima ancora avevano rovinato la Germania: “L’ebreo in Germania è considerato un ospite; li ha offesi cercando di trasformarsi nel padrone di casa. Non c’è al mondo maggiore contrasto che quello tra la pura razza germanica e la pura razza semitica… L’ebreo odia il popolo tedesco; e per questa ragione i paesi del mondo maggiormente dominati dagli ebrei hanno odiato la Germania durante l’ultima guerra. Gli strumenti attraverso cui si plasma l’opinione pubblica erano quasi esclusivamente in mano agli ebrei. Di conseguenza i soli vincitori della guerra furono gli ebrei…”. Il primo articolo della serie era già un programma: “L’ebreo internazionale, il Problema del mondo”. Problema la cui soluzione non poteva essere che la Soluzione finale.



Si dice, o per meglio dire dicono gli agiografi ufficiali ingaggiati dagli eredi Ford per smacchiarne almeno un po’ la memoria, che Henry Ford si sia poi pentito delle sciocchezze che faceva scrivere negli anni 20. Aveva già chiuso il Dearborn Independent quando fece una specie di ritrattazione, in cui si diceva dispiaciuto che gli ebrei fossero offesi e lo considerassero un loro nemico. Li rassicurava che non era questa la sua intenzione. Ebbe la faccia tosta di sostenere che lui non seguiva quel che veniva pubblicato sul suo giornale. Diventare odiosi a metà dell’opinione pubblica non fa bene agli affari. Specie se cambiano il clima politico e gli inquilini della Casa Bianca. Da destra fu attaccato per essersi rammollito, aver venduto le sue idee “per un piatto di lenticchie”. Non era proprio così. In realtà aveva continuato a foraggiare i raggruppamenti estremisti in America e soprattutto in Europa. Compresi i nazionalsocialisti di Hitler. Evidentemente faceva comodo ai suoi affari. Tra le prime realizzazioni del Terzo Reich ci furono le autostrade e la Volkswagen. Il modello per la prima fabbrica Volkswagen fu la fabbrica Ford di Dearborn in cui si costruiva il Modello T. Prima ancora l’avevano presa a modello nella Russia di Stalin.



Henry Ford aveva 82 anni quando gli venne un ictus. Stava guardando, a quel che raccontano i biografi, un documentario girato dai soldati americani alla liberazione del campo di sterminio nazista di Majdanek. Rimorso? Non si può sapere. Il rimorso non è la virtù dei geni tipo Musk o Ford. Lo lasciano agli stupidi.

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