Il Solzhenitsyn islamico da due mesi prigioniero del regime algerino. E della paura dei benpensanti. I suoi “crimini”? Gli scritti, le parole e una certa gioiosa irriverenza verso l’islam e il regime
I suoi “crimini”? Gli scritti, le parole e una certa gioiosa irriverenza verso l’islam e il regime algerino con cui inquieta e riesuma ciò che va tenuto nascosto. Agli amici che gli chiedevano perché non si fosse ancora esiliato in Francia come tanti altri intellettuali arabi, Boualem Sansal rispondeva: “Spetta a loro (i membri del regime di Algeri) andarsene, non a me!”. Aveva sempre preferito tornare sulla costa algerina, dove ha sempre vissuto. Anche il giorno in cui è stato arrestato, mentre percorreva quella stessa strada che, durante la guerra civile degli anni Novanta, Sansal faceva a tutta velocità tra la casa e il lavoro ad Algeri per evitare i posti di blocco dei terroristi. Da trent’anni sapeva che stava rischiando la vita, che prima o poi avrebbe pagato.
A valergli il soprannome di “Orwell algerino” è il romanzo “2084” (Grand Prix delll’Académie française), in cui Sansal immagina un mondo distopico governato da una dittatura islamista, scenario che Michel Houellebecq aveva giudicato molto peggiore di “Sottomissione”. Sansal inventa un impero, l’Abistan, dove l’Apparato sorveglia tutti “grazie a un dispositivo telepatico”.
“Costretto a un grande isolamento, ha questo fatalismo beffardo che mi stupisce e spaventa”, confida il suo editor a Gallimard
Autoprofezia. Lo scrittore franco-algerino, 75 anni, è in carcere dal 16 novembre dopo essere arrivato all’aeroporto di Algeri su un volo da Parigi. Per Algeria Patriotic, organo ufficiale algerino, Sansal “è un fascista filosionista”. “Non teme per la sua vita, è costretto a un grande isolamento, ma ha questo fatalismo beffardo che mi stupisce e spaventa”, confida al Parisien Jean-Marie Laclavetine, suo editor fin dal primo romanzo pubblicato da Gallimard. “C’è in lui una rabbia metafisica, carica di malinconia. E’ un idealista che avrebbe voluto che il mondo funzionasse diversamente”. Emmanuel Macron ne ha chiesto la liberazione, ma per il presidente algerino Tebboune Sansal è un “traditore”, un figlio di nessuno. La Francia ufficiale si agita dietro le quinte, ma sembra paralizzata. E così Sansal, il Solzhenitsyn islamico, ora rischia l’ergastolo, mentre il cancro lo consuma dietro le sbarre.
A Praga conobbe la prima moglie, Anicka, una studentessa di antropologia, cristiana hussita. Nel 1974 si sposano. Due anni dopo nasce la prima figlia. Poi la rottura col suo mondo. Un giorno Sansal va a prendere la figlia a scuola, ma la trova con un imam: era stato avviato un programma di islamizzazione per i bambini nati da coppie miste, con madri cristiane. In preda al panico, Sansal manda la famiglia a Praga. Il matrimonio non sopravvive.
Nella guerra civile algerina, a cui dedica il suo primo romanzo, Sansal perse numerosi amici, come lo scrittore Tahar Djaout
Negli anni Novanta, Sansal era entrato a far parte del ministero del Commercio, poi direttore generale dell’industria. Se avesse tenuto la bocca chiusa avrebbe fatto carriera. Ma la guerra tra l’esercito e gli islamisti insanguina il paese. Le donne incinte sono sventrate vive, le ragazze rapite, i bambini tagliati a pezzi. Una dozzina di intellettuali laici eliminati.
Viene sgozzato Mohammed Boukhobza, sociologo. Tahar Djaout, scrittore amico di Sansal, è finito a fucilate. Citando Djaout, Sansal dice che restare in silenzio sarebbe per lui una forma di suicidio. Tanto vale parlare e morire. Dice che per vivere in Algeria ci vuole coraggio. “Un coraggio a lungo termine”.
Cinquantenne senza alcuna precedente esperienza letteraria, Sansal si siede al computer e scrive. Scrive un’accusa potente contro l’Algeria degli islamisti e del Fln. L’incipit del romanzo lascia il segno: “Il cimitero non ha più quella serenità che un tempo incuteva rispetto, è una ferita aperta, una baraonda insanabile, dove scavano con le pale meccaniche, seppelliscono con le catene, ammassano corpi a perdita d’occhio. Le persone muoiono come mosche, la terra le inghiottisce e nulla ha senso”. Quando raggiunge le trecento pagine, Sansal decide di inviarle a Gallimard, l’unico editore di cui aveva l’indirizzo a Parigi. Un titolo: “Il giuramento dei barbari”. “Mi sono detto: se pubblico questo verrò arrestato e condannato a vent’anni di prigione, oppure assassinato dagli islamisti. Alla fine non è successo niente”. Ma la resa dei conti era solo rimandata.
Lo chiamano da Parigi. A Gallimard sono entusiasti. Ma gli consigliano di usare uno pseudonimo. Lui scoppia a ridere. Firmerà con il suo nome: “Boualem Sansal”. Mentre diventa scrittore, la guerra civile finisce e nessuno sa chi l’abbia vinta. Gli alti funzionari come lui e che parlano francese sono chiamati “cristiani” o “infedeli”. Sansal attacca tutti: il presidente Bouteflika, i leader religiosi, gli intellettuali, la società. Nel 2003, su ordine di Bouteflika, Sansal è licenziato. Vive con lo stipendio di sua moglie, insegnante di liceo, e le piccole entrate letterarie.
“Ero diventato l’uomo da abbattere, ho subito insulti e fatwe da parte degli islamisti”. Non è ufficialmente perseguitato. Lo lasciano viaggiare. I libri di Sansal circolano, ma i suoi lettori algerini i romanzi se li passano sotto banco, come samizdat. Sansal è invitato a strani incontri clandestini. “Ho sentito che sta per uscire il tuo nuovo romanzo. Vieni a parlarne da noi. Ci sarà del vino”. Gli intellettuali si riuniscono in segreto, come accade nei paesi dell’Est. Sansal sa che tutti questi posti sono infiltrati dalla polizia: una donna delle pulizie, un ragazzo che vende sigarette, un vecchio che fuma, chiunque è un informatore. Il telefono è ascoltato, la posta letta. “Avrei potuto fare la valigia. Ma lo consideravo un abbandono e mi dicevo: finché non mi hanno assassinato, va bene così”. Nel 2012 Sansal è invitato alla Fiera del Libro di Gerusalemme. La stampa si scatena contro il “traditore” venduto alla “lobby sionista”. E’ accusato di tradimento e considerato un “agente del Mossad”. “Sono andato in Israele e sono tornato ricco e felice”. Per “Rue Darwin” gli era stato conferito l’Arab Novel Prize, finanziato dal Consiglio degli ambasciatori arabi e con una giuria composta da Hélène Carrère d’Encausse e Tahar Ben Jelloun. Gli tolgono il premio. La decisione, ha rivelato in seguito il direttore di France Culture, era stata influenzata da Hamas, che aveva fatto pressioni con successo sui membri del consiglio per punire Sansal.
Ma lui continua a scrivere. Vince il Friedenspreis des Deutschen Buchhandels, il Premio per la pace dei librai tedeschi. Diventa amico di David Grossman. Scrive “Il villaggio del tedesco”, che lega la Shoah al mondo arabo. Racconta la storia, basata su un resoconto reale, di un ufficiale nazista che fugge in Algeria, aiuta i nazionalisti a cacciare con le armi i coloni francesi e si ritira in un piccolo villaggio. I figli scoprono la sua identità segreta, come l’affinità tra i leader arabi e i reduci nazisti che erano andati al Cairo, ad Algeri e a Damasco ad aiutare i regimi contro gli ebrei e gli europei.
L’8 settembre 2015, due mesi prima delle stragi dell’Isis, un giornalista di France Inter gli chiede se l’islam fosse compatibile con la democrazia e lui non giocò con le parole. “Per me è del tutto incompatibile”. Nel 2018 scrive “Il treno di Erlingen”. Il pericolo non è più una distopia, è lì, nel cuore di questo “occidente perfetto” che è diventato un “santuario minacciato”, un “paradiso perduto” perché… si arrende.
La sua seconda moglie Naziha, che insegna matematica in un liceo di Boumerdès, è chiamata “sporca ebrea”. I genitori ne chiedono la testa perché temono che possa “contaminare” gli alunni con il suo “ebraismo”. Anche lei deve dimettersi.
“Non è bello vivere con i propri segreti, bisogna scoprirli o morire”, confida Sansal nel romanzo autobiografico “Rue Darwin”. Boualem, alias Yazid, si chiede: “Non solo ignoro le mie origini, chi sono mio padre e mia madre, chi sono i miei fratelli e sorelle, ma anche quale mondo è la mia terra e quale vera storia ha nutrito il mio spirito”. Sansal ha sempre avuto un rapporto stretto con gli ebrei. Nato in un piccolo villaggio nei monti della regione berbera, Sansal è figlio di un padre originario del Rif marocchino e di una madre francofila, Khadjidja Benallouche. Il padre viene da una famiglia ricca, per la quale era una vergogna che il figlio sposasse “una donna francese”, un’“infedele”. Poi il padre muore un anno dopo la nascita del figlio in un incidente stradale. La famiglia paterna prende il bambino e caccia la madre che va ad Algeri senza lavoro.
Fino a tre anni, Sansal vive con persone molto ricche che viaggiano per amministrare i beni. La madre del futuro scrittore organizza il rapimento del figlio. Sta giocando, Sansal, è avvicinato da un uomo che lo mette in macchina e finisce ad Algeri. Sansal lo racconta sempre in “Rue Darwin”. Il caso risale al periodo 1958-1962, nel pieno della guerra d’Algeria. Vive a Belcourt, un quartiere operaio di Algeri caro ad Albert Camus in una stanza adiacente alla sinagoga. Il rabbino diventa il suo migliore amico. Sansal ha dieci anni e il rabbino 75, non ha più fedeli neanche per il minyam. Così Sansal diventa apprendista rabbino, “ebreo per cultura”. Nel quartiere lo chiamano “Rabbinet”. Sono gli anni in cui oltre centomila ebrei algerini decidono di fare le valigie e lasciare il paese alla volta della Francia. Di loro non resta nessuno, soltanto vecchie tombe in cimiteri infestati dalle piante e dalla rovina del tempo.
Da ebreo puzzolente, Sansal sarebbe diventato “nemico di Allah”. Intellettuali e accademici algerini iniziarono ad attaccare le sue opere con sempre maggiore veemenza. “Governare nel nome di Allah”, un libretto anti-islamista pubblicato nel 2013, gli vale l’etichetta di “islamofobo”. Oggi Sansal è prigioniero di due galere: il regime algerino e la gauche europea.
La sinistra è doppiamente imbarazzata: compiacente con l’islam politico e con il regime algerino per pentimento coloniale
Per Arnaud Benedetti, direttore della Revue Politique et Parlementaire, che organizza a Parigi le serate di sostegno a Sansal, il pericolo maggiore è quello di restare sepolti nell’indifferenza. Ma c’è qualcosa di peggio dell’oblio: c’è chi, spudoratamente, ne approfitta per sputare sullo scrittore. Una deputata femminista dice che “Sansal non è un angelo”. Che le bestie lo scortichino.
I rappresentanti politici e culturali di tutta la vecchia sinistra europea sono doppiamente imbarazzati dal caso Sansal: compiacenti con la dittatura algerina per pentimento coloniale, compiacenti con l’Islam politico per paura e per i voti. “Tra vent’anni, quando le acque islamofobe della Francia si saranno ritirate, ci chiederemo come abbiamo potuto entusiasmarci così tanto per un thriller così lento”, scrisse all’uscita di “2084” il direttore della rivista Paris Match, accusando Sansal di esagerare la minaccia che l’islam rappresentava per il mondo occidentale.
Non è il candidato giusto per le campagne pubbliche: è arabo ma filoisraeliano, non edulcora l’islam, è di sinistra ma contro il woke
“Il Voltaire dell’Africa degli oppressi, che non ha mai voluto lasciare il paese, nemmeno nei momenti peggiori degli anni bui del terrorismo islamista, è nelle mani dei suoi aguzzini”, ha scritto il 24 novembre il quotidiano Matin d’Algérie. In Italia nessuno scrittore ha fatto appello per la sua liberazione. Neri Pozza, la sua casa editrice, è l’unica a chiederne il rilascio. Per il resto, un silenzio totale e imbarazzato, come se non si fosse neanche a conoscenza del suo caso. Lo scrittore algerino non è il candidato giusto per le campagne pubbliche: è arabo ma filoisraeliano, non edulcora l’islam, è di sinistra ma contro il woke, è un ateo ma piange il declino del cristianesimo europeo.
“Finché sarò sotto i riflettori, sarò risparmiato”, disse nel 2011 all’Express. Si sbagliava, ma è in galera perché ha ragione.