L’immaginazione in vetrina

Eventi, boutique allestite come biblioteche. Nell’anno della crisi strutturale e mentre il governo vara un piano di aiuti per 200 milioni destinato alle piccole imprese, ecco come si evolve il sistema narrativo della moda e la rappresentazione delle collezioni. Per piccoli gruppi specifici o anche folle, come in un concerto rock

Venerdì 10 gennaio, mentre continuavano a propagarsi le fiamme del più devastante incendio che abbia mai colpito la California e gli Stati Uniti e che quasi dieci giorni dopo non risulta ancora domato, sul piazzale della Ghiaia della Fortezza da Basso, a Firenze, il team degli architetti e allestitori della 107esima edizione di Pitti Uomo valutava il da farsi. La grande installazione centrale, che ormai da decenni dà vita al tema della stagione e che viene annunciato con un road show in tutto il mondo un paio di mesi prima, nel caso specifico lo scorso novembre, era infatti dedicato al fuoco. “Fire”: una immensa composizione di LEDwall pixel map che riproduceva un falò, con l’idea di simboleggiare una ripartenza per la moda in crisi da diciotto mesi, la purificazione, la fenice che rinasce dalle proprie ceneri, avete presente quei richiami molto biblici alla trasformazione e che però, ahinoi, da almeno un secolo e talvolta a suon di leggi, hanno colpito proprio l’area confinante con Hollywood, la Sodoma e Gomorra di infiniti romanzi ma anche di leggi bacchettone (Codice Hays, remember?) dal giorno stesso dell’impianto di due tende e una cinepresa un secolo e mezzo fa, e avete sempre presente quanto riescano a essere puritani Oltreoceano.

Insomma, quel venerdì 10 gennaio, i vertici di Pitti, da Raffaello Napoleone ad Agostino Poletto a Lapo Cianchi, si sono trovati davanti a quella catasta di video montati su tubi innocenti con Alessandro Moradei, l’architetto fiorentino che segue da molti anni i progetti allestitivi per i saloni di Pitti e in particolare per la Leopolda, vedi quella lunga “spina” di tavoli che, in guisa di nervatura, identici e democratici, accompagnano il visitatore a Taste e a Testo-Come si diventa libro, il salone dell’editoria più selezionato e originale del panorama italiano (quest’anno in programma dal 28 febbraio al 2 marzo). E insieme, perché nulla come una “presentazione” e un allestimento sbagliato o fuori luogo rischia di compromettere il successo di un evento, argomento di questo numero, hanno deciso di eliminare le immagini del fuoco, per sostituirle con quelle della campagna pubblicitaria, anche lei scattata su fondo rosso ma ovviamente molto meno distonica nell’immagine generale e nell’effetto specifico.

Dovessi scrivere che i visitatori se ne accorgono, mentirei: tutti, ignari, garruli, corrono sotto l’impalcatura a scattarsi un selfie, comunque felici di trovarsi a Firenze ben vestiti e con il calicino gratuito in mano mentre il ministro del Made in Italy Adolfo Urso annuncia un nuovo Tavolo per la moda il 24 gennaio e 200 milioni di aiuti, di cui cento destinati ai contratti tradizionali di sviluppo e altri cento a sostegno delle piccole e medie imprese che, come tutti dicono da decenni, sono “l’ossatura” imprenditoriale italiana, ma se proprio vogliamo dirla tutta sono anche quelle meno adattabili e pronte al cambiamento. Per mancanza di cultura di impresa, di manager all’altezza, di visione. Sono rari, infatti, i casi come quello di Giuliano Ceccarelli, ex-terzista romagnolo che venticinque anni fa, dopo essersi trovato con “otto dipendenti e fatturato zero” per via della cancellazione del contratto da parte di una multinazionale statunitense, è andato a cercare il casentino “non arricciolato”, originale, le lane italiane ad alto micronaggio “perché funzionano come una molla e rendono l’imbottitura dei giacconi più soffice e gonfia” e si è inventato un brand adorato dai modaioli e che oggi può permettersi la collaborazione di Niccolò Cerioni, stylist di Achille Lauro, di Angelina Mango e delle più grandi star dello spettacolo. In compenso, è molto evidente la discrepanza fra la realtà del momento e l’ostinazione con la quale la maggior parte delle piccole, ma anche delle grandi imprese, continua a comportarsi come se nulla stesse accadendo e che basterà ridurre i budget in comunicazione e viaggi-premio per ritrovarsi con il vento in poppa a giugno, indicata o forse solo immaginata come la data della svolta e del ritorno al “business as usual”, evitando cioè di raccontarsi la verità (bisognerà produrre meno, rivedere i prezzi, secondo i calcoli di una grande associazione di categoria un multiplo di diecimila piuttosto sostenuto di addetti al sistema dovrà trovarsi un nuovo lavoro o specializzarsi e duole davvero scriverlo in modo così sbrigativo) e spingendo comunque il tema della sostenibilità, ambientale ma soprattutto sociale, in fondo all’agenda. L’aumento delle esportazioni italiane di beni di lusso verso Hong Kong, il sud est asiatico e l’Arabia Saudita non significa affatto che la Cina sia in ripresa o che il governo di Beijing voglia allentare le sanzioni, anche e soprattutto morali, contro chi compra “straniero”. Hong Kong, in questo momento, pullula di expat russi, ucraini, bielorussi, volti del business degli Emirati. Chi compra sono soprattutto loro, la mappa del lusso non segue mai quella dello scacchiere geopolitico internazionale, semmai la contraddice. E questa compagine di ricchi e ricchissimi, che trascorre le giornate in boutique, non davanti a un computer, vorrà maggiore “experience”, anche nell’acquisto di una borsetta, vorrà sentire di occupare le proprie giornate compiendo non solo un acquisto, ma anche e soprattutto un atto culturale. Va in questo senso la modalità strategica di creazione dei nuovi eventi e dei nuovi spazi di rap-presentazione della moda, siano destinati a un pubblico selezionatissimo ma anche popolare, come quello che in queste settimane va affollando i tram allestiti da Louis Vuitton per la riedizione della collaborazione con Takashi Murakami, ormai datata 2005, gli anni del boom “kawaiii”, del “carino” nipponico, ma ancora ben impressa nella mente (e non di rado allocata nei guardaroba) di centinaia di migliaia di affezionati in tutto il mondo. Ho provato a prenotare un tour della città su uno di questi due mezzi, che trasmettono il film anime realizzato due decenni fa per il lancio e offrono un piccolo servizio di sushi. Sold out, esaurito un minuto dopo l’apertura della prenotazione, come un concerto rock. Gucci sta riallestendo le proprie vetrine come wunderkammern cariche di libri. Non so quanto questo progressivo spostamento della moda da espressione di possesso a esperienza sarà utile per il recupero di fatturati che segnano ormai il double digit, la doppia cifra, ma in negativo. Di certo, però, non è nemmeno più una tendenza, ma un fatto conclamato ed evidente. Se avessi un figlio liceale, gli suggerirei studi in storia dell’arte, scenografia, architettura, costume. E molta intelligenza artificiale.

Il couturier della vetrina (nel segno di Leigh Bowery). In questi mesi Francesco Colucci è tornato in Italia per attendere a questioni di famiglia piuttosto urgenti. Lucano, poco più che quarantenne, insomma un “giovine” per i nostri standard, ha studiato all’Accademia di Belle Arti di Roma, ha debuttato con la costumista Paola Lo Sciuto e artista vuole essere, giustamente, chiamato, sebbene un numero sempre crescente di persone abbia imparato a conoscerlo grazie ai favolosi manichini dei quali, per quasi quindici anni, ha allestito la vetrina di Traid, il second hand benefico londinese che finanzia progetti globali a sostegno di coltivatori di cotone biologico e dei lavoratori dell’industria tessile. Le sue installazioni sofisticate e sorprendenti, che guardano tanto alla lezione surrealista di Max Ernst quanto al gusto per la trasformazione e l’alterità di Leigh Bowery, il performer-clubber-musicista australiano scomparso nel 1994, ispiratore del lavoro di Lee McQueen e John Galliano, al quale la Tate Modern dedicherà una grande retrospettiva dal prossimo 27 febbraio, hanno sedotto per prime star come Lady Gaga e Lauryn Hill (“il mio lavoro, però, non è strutturato per trasformarsi in look: è un’opera d’arte, difficile da indossare”) e poi il Victoria&Albert Museum, che nei mesi scorsi l’ha invitato ad esporre, primo artista italiano in un elenco che include Vivienne Westwood e Yohji Yamamoto, nell’ambito della rassegna “Fashion in motion”. Un progetto che Colucci spera di portare in Italia: “Sarebbe meraviglioso”, dice davanti a uno shottino di limone e zenzero al Six Senses di Roma in una freddissima mattinata di gennaio, carico degli abiti di un’artista italiana che, nel frattempo, ha accettato di vestire per il suo tour dopo aver terminato un progetto pubblicitario per un brand di moda di Berlino, Inneraum (nella foto). Non avrebbe mai voluto lasciare la capitale, e come tanti si è trovato all’estero non per caso ma un po’ per forza: “All’inizio non conoscevo la lingua, ma in realtà solo Londra, fino a oggi, ha creduto in me”. C’è tempo per rimediare.

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