La potenza millenaria di Dioniso, fra gelosie e sacrifici rituali

Violenta, animale e umana: è la manifestazione del dio femmineo della contraddizione, del vino e dell’estasi amato da Nietzsche. Una maschera che unisce l’individuale e il collettivo

Che cosa ha perduto lo spirito europeo? Gli dèi celebrati da Omero, Pindaro, Sofocle, Euripide ci parlano ancora, oppure, inascoltati, si aggirano come barboni fra antiche rovine? Che tipo di pregiudizio annichilisce una prodigiosa potenza millenaria, che soprattutto la religione dello spirito greco ha saputo incorporare? Chi è lo straniero che bussa insistentemente alla porta?

In Dioniso (Adelphi, 285 pp., a cura di Giampiero Moretti), scritto nel 1933, il filosofo tedesco Walter F. Otto archivia gli edifici di cartapesta razionalistici e riporta alla luce i templi, i monumenti, i culti e, soprattutto, il sentimento del colossale che esprimono. Respinge categoricamente le spiegazioni utilitaristiche di coloro che guardano al culto come a una “illusione primitiva”, fabbricata dall’uomo a suo uso e consumo; infatti – intuisce – i culti sono creazioni che testimoniano l’incontro con il sovrumano. Schernisce, poi, chi considera il mito un arbitrio della fantasia, una invenzione poetica, giacché si tratterebbe di un doppio errore, infatti “la poesia genuina non è mai arbitraria”.

Otto si addentra in un territorio originario, il luogo del dispiegarsi di una potenza generativa e, al contempo, distruttiva, che diviene e si manifesta, di volta in volta, in modi diversi e nel mondo: assume le sembianze delle figure del mito e si esprime nei culti, sopravanzandoli. Una forza inaudita attraversa il mito così come una presenza grandiosa si rivela nel culto, e ciò è massimamente evidente nella religione dionisiaca, che si è manifestata compiutamente nella forma dello spirito greco.

Questa forza primigenia afferra, risveglia, scuote e straripa, travolgendo gli argini, i confini e le forme. Ebbra e violenta, animale e umana, è l’ambigua teofania di Dioniso, il dio femmineo della contraddizione, il “nato due volte”, il dio del vino, della vite e dell’edera, del fuoco e dell’umido, il dio dell’estasi e, insieme, il dio perseguitato, smembrato, sofferente e morente, amato da Nietzsche, che ne svela la diretta corrispondenza con Apollo, il dio della misura (“La nascita della tragedia”). Un legame oscuro unisce violenza e sacro, fragore e silenzio, creazione e caducità: il suo è “uno strepito muto come la morte”.

Una follia che invasa e offre il dio stesso in sacrificio sembra accomunare i destini di Dioniso e Cristo; tale rispecchiamento veniva approfondito da Schelling nelle lezioni raccolte in Filosofia della rivelazione (postume, 1858), che anche decreta la fine della mitologia nei misteri greci. Da questa imperscrutabilità sotterranea sgorgano zampillanti le arti dionisiache, musica e danza, che testimoniano la vertigine del dio che mette in scena la propria morte.

Qualche decennio dopo Otto, René Girard intuisce che la società, espellendo ciò che è sacro e trascendente, per contrappasso si trova ad accogliere la violenza su un piano immanente. Negli Studi sul dionisismo, Maurizio Grande considera come una violenza intollerabile abbia generato la civiltà che, proprio in quanto eccessiva, necessita di essere espiata attraverso un sacrificio rituale che la umanizzi e riunisca il corpo sociale entro i suoi argini. Non si fonda, il teatro, sul bisogno di catarsi, oltre che sulla necessità di far apparire il sommerso? La maschera, simbolo dionisiaco per eccellenza, non assomma in sé sia l’individuale che il collettivo? Dioniso fa uccidere dalle Baccanti Orfeo, perché devoto ad Apollo. Ma si tratta solo di gelosia o non, piuttosto, di un sacrificio rituale, che consenta al caos di inabissarsi per rigenerarsi e venire alla luce? Sul carro a forma di nave, ancora una volta, Dioniso si dilegua nelle profondità marine.

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