La nostra esistenza inconsapevole, e anche felicemente museale, sotto una teca

In un momento di incertezza totale e di “fine dell’extra”, solo l’innovazione di prodotto possa invertire la tendenza, fra le strade del lusso mondiali dove anche il pubblico ricco vede sfilate il “tutto identico”

La teca, il meccanismo del display, della mostra. L’esposizione di oggetti allo sguardo altrui. Io stesso vivo sotto una teca di ossigeno stantio. Sono un soggetto vivente sotto la calotta di una teca gassosa che si chiama atmosfera. Ci sono teche ovunque. Aerei, treni, auto… Vedo la città piena di grandi contenitori che espongono o nascondono quello che preservano (anche la vita dal sole). E osservo milioni di meccanismi di display sottovetro: vedo torri di appartamenti come forme di preservazione dall’esterno e della famiglia e degli individui stessi, spesso costretti a mostrarsi come altro da sé, e anche coppie e famiglie, tutti delicati come ampolle contenitive. Ma anche le stesse case, come piccoli musei di sé stessi. Vedo luoghi del divertimento, come discoteche, luoghi del desiderio dietro uno schermo, trasparente o meno, e ologrammi di star invecchiate o scomparse ma vive grazie – anche – all’A.I. Vedo piante soffocate e insieme preservate in serre e vedo animali vivi (negli acquari e negli zoo) e vedo animali da tempo trapassati, anche umani – esposti in diorami o ampolle pazzeschi nei display dei musei di storia naturale. E poi entro infine nei musei di oggetti antichi – anche enormi – o reperti. Osservo come espongono le “cose” e, nel caso di musei delle culture, come espongono quasi sempre quello che appartiene a qualcun altro.

Che fare? Restituire tutto? Restaurare e preservare magari utilizzando meccanismi di studio approfondito, attraverso tecnologie non ancora disponibili altrove? Mettere solo copie in mostra? Eh, però. Sparire del tutto?

L’imprescindibile conversazione intorno a questi nodi, che parte dal rispetto dell’Altro – sta infiammando da tempo i centri di ricerca come il MUDEC. Lo studio sull’idea di esporre/mostrare – e quindi di vetrina -, di cui si è occupato il secondo numero di ‘Mudec United’, la rivista del Museo delle Culture di Milano, in occasione della mostra “Exposure” che si è tenuta nella primavera del 2024, è stata un’immersione dentro il caleidoscopio della vetrina del lusso, dalle meraviglie di Tiffany e Bergdorf Goodman degli anni Venti fino all’esplosione meravigliosa e insuperata della Rinascente di Milano degli anni Sessanta, per arrivare alla gioia delle astronavi Fiorucci (ora razionalizzate nella buona mostra in corso alla Triennale di Milano) fino alla giusta celebrazione della figura di Manuela Pavesi, per molti anni al centro della concezione trionfale degli spazi espositivi di Prada, di cui J.W. Anderson, astro assoluto della moda, diede una definizione straordinariamente rivelatoria sulla stessa rivista: “Ho sempre pensato che (in lei) ci fosse una sorta di strana tensione sessuale nello styling, nel mettere insieme gli opposti. Essendo cresciuto nell’Irlanda del nord, non avevo mai incontrato una personalità così eccentrica”.

Per completezza di informazione, faccio ora un controllo sul presente e il futuro del display con la divisione del gruppo Prada che se ne occupa. Dicono che in un momento di incertezza totale e di “fine dell’extra”, solo l’innovazione di prodotto possa invertire la tendenza, fra le strade del lusso mondiali dove anche il pubblico ricco vede sfilate il “tutto identico”. La sostanziale scomparsa del pubblico medio, pianificata a tavolino, con un aumento massiccio dei prezzi negli ultimi tre anni, ha raso al suono la classe media e generato una lotta per la conquista del pubblico di fascia più elevata che da un lato fa leva sull’innovazione estetica, e dall’altra (ma sempre meno) sul cosiddetto “lusso quieto”. In questo scenario, gli allestimenti che, come ovvio, dipendono dalla collezione, non cambiano però in modo radicale nel tempo. “Soprattutto”, segnalano, “non crescono i budget per produrli”. Non cala comunque il desiderio di possesso da parte di chi osserva e non può permettersi di acquistare, e che dunque capita scelga strade alternative, non sempre legali come si legge nelle cronache cittadine, per procurarsi l’oggetto del desiderio. Anche a questo contribuisce il “display”, come dice la storica analista della moda Mariuccia Casadio: il suo inesauribile fascino “è un immaginario a portata di mano, aperto al pubblico, eppure inviolabile e intangibile, nel quale le merci interagiscono con fondali, quinte e oggetti di scena, componendo trame spaziali e narrative”. Una vera e propria arte nata per esaltare il fascino e la desiderabilità dei prodotti, “il display ha trasformato la vetrina in un linguaggio, un modo di comunicare connotato via via da mode e costumi del suo tempo”. Ma sbaglia chi crede che si tratti di un messaggio distintivo e unico. Al contrario, come dice sempre Casadio, “il suo coniugare una visione in 3D e insieme piatta, grafica di elementi diversi ha contaminato numerosi altri spazi e format, la pagina cartacea dei magazine e quella digitale di allestimenti, presentazioni e pubblicità on line, distinguendo vetrinisti sempre più accreditati, inventivi e visionari, impiegati in esclusiva da importanti department store e boutique monomarca”.

Affascinanti come quadri o addirittura come mondi accattivanti, invalicabili, pensati per catturare l’attenzione dei passanti e indurre desideri. “Dal mercante Francis Place, tra i primi a optare per l’esposizione sotto vetro e su strada dei suoi prodotti sartoriali nella londinese Charing Cross di fine Settecento, alle teorie sul display del tecnico americano L. Frank Baum, che fonda la rivista “The Show Window” e scrive una vera e propria guida del vetrinista (oltre a immaginare e scrivere il “Mago di Oz” che dei nostri desideri è lo specchio perfetto, non dimentichiamolo, nda), fino alla nascita di una “National Association of Window Trimmer” già negli anni tra 1897 e 1898, non è arduo pensare che quella del vetrinismo sia una delle più pionieristiche professioni della modernità, l’origine stessa della nuova economia occidentale”.

Carlo Antonelli, direttore editoriale di “Mudec United. A tribute to visions, outer worlds and friend-ships”, rivista semestrale del Museo delle Culture di Milano

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